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Le intrusioni nei litigi fra bimbi

9 Apr

Quante volte da bambini ci è capitato di litigare coi nostri fratelli, cuginetti o amici fino al punto, a volte, di metterci le mani addosso? Ci sono piaciuti gli interventi dei nostri genitori? In genere sì se eravamo la parte soccombente, no nel caso opposto e spesso no in ogni caso, al punto che paradossalmente finivamo per allearci contro i genitori stessi (emblematico il caso dei gemelli che difendono l’un l’altro a spada tratta)…

Tenetevi forte perché sto per rivelarvi qualcosa che molti di voi, d’istinto, non condivideranno subito: l’intrusione nei piccoli litigi quotidiani dei bambini non è utile; anzi è proprio dannosa. I piccoli usano il litigio come forma di confronto sociale e ciò è del tutto educativo e lecito: litigando, essi imparano a misurarsi, a misurare l’«avversario», a capire le proprie debolezze, ad argomentare le proprie ragioni in attacco e in difesa… Insomma, se il litigio non diventa pericoloso (cioè se i bambini non passano alle vie di fatto) o chiaramente insolente e isterico (cioè s’insultano in modo più simile ad adulti squilibrati che a bambini), meglio far finta di nulla.

I rischi di un intervento non necessario sono molteplici: la parte debole finirà per credere intimamente che non sarà mai in grado di gestire un conflitto da sé; quella forte (generalmente oggetto di reiterate punizioni unidirezionali) si riterrà la pecora nera che sbaglia sempre tutto; entrambi si considereranno incapaci di trovare un compromesso, perciò non si porranno mai il problema di quest’importante obiettivo… Intervenire nei litigi dei bambini quindi si configura come un errore di ruolo: la funzione, l’atteggiamento del genitore non sono infatti quelli dell’arbitro (imparziale, anzi spesso parzialissimo) sempre presente in campo: nella partita del bambino, che comprende il litigio, non c’è nulla né alcuno da ritenersi giusto o sbagliato, regolare o meno.

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Liti eccessive e punizione

Ciò detto, è altresì ovvio che, se i bambini dovessero litigare in modo potenzialmente pericoloso, è d’obbligo intervenire subito (con risolutezza ma mantenendo la calma!), separarli in stanze diverse e metterli tutti in punizione per qualche minuto perché capiscano che certi limiti non vanno travalicati (questo sì che è ruolo genitoriale). Attenzione: se anche uno dei due dovesse soccombere (per esempio, il primo tira un pugno sul labbro al secondo, facendolo sanguinare), si curerà il danneggiato con calma, spirito consolatorio ma senza sentimenti di solidarietà; quindi si punirà anche lui perché è utile che capisca che a portare le situazioni al punto di conflitto si è sempre almeno in due.

Dopo la punizione a seguito di un intervento per un litigio pesante, si devono riunire tutte le parti in causa (anche i bimbi eventualmente presenti e che non avessero partecipato all’alterco) e discutere con calma risoluta, ma senza recriminazioni né atteggiamenti di giudizio soggettivo, sugli sbocchi cui un simile confronto avrebbe potuto condurre. Non è quindi utile urlare: “Marco, avresti potuto rompere la testa a tua sorella!!!” bensì spiegare, rivolgendosi a tutti (non solo a Marco e sorella): “Quando ci si dà le botte, si rischia di fare molto male all’altro; per esempio, di rompergli un occhio e accecarlo per tutta la vita! La mamma e il papà non accetteranno mai questo comportamento e sono molto dispiaciuti per quello che è successo!” Così facendo, il bambino che ha agito capirà da solo che cos’avrebbe potuto causare; l’altro si guarderà bene dal portare di nuovo il conflitto all’esplosione; nessuno dei due, tuttavia, sentirà l’inutile pressione mortificante del dito puntato. Ricordiamoci bene: coi bambini non si celebrano processi e la casa non è un’aula di tribunale; se i piccoli cresceranno nell’equilibrio e nel rispetto di sé e dell’altro, da adulti non cercheranno facili difese o dubbie scorciatoie per ottener ragione.

Va da sé che il dialogo costante coi propri figli (non l’urlo o l’imposizione dall’alto) aiuta, nel medio-lungo termine, a risolvere qualsiasi situazione di conflitto perché se anche il bambino più debole dovesse spesso tacere mandando giù il boccone amaro, poi ne parlerebbe col genitore, che sarebbe visto come un riferimento affidabile e non un dispensatore di premi e condanne; mamma e papà potrebbero aiutarlo a capire che, per esempio, esistono cose più importanti nella vita che aver sempre ragione, specie davanti a un prepotente…

Infine si verificano purtroppo situazioni in cui uno dei figli attacca sistematicamente l’altro anche senza alcun tipo di provocazione; in genere ciò succede o in casi strettamente patologici (e quindi è opportuno rivolgersi a uno specialista) o se il genitore tende a rivolgere la propria attenzione (consciamente o meno) verso il figlio vittima degli attacchi; ricordo a tal proposito che, così come tutti noi siamo (o almeno dovremmo esserlo) uguali davanti alla legge, tutti i figli sono uguali davanti ai genitori e quindi bisogna dosare le attenzioni in modo paritetico, indipendentemente da sesso, età e carattere del bambino; in caso contrario, i figli cui è lesinata l’attenzione si sforzeranno di attirarla in qualunque modo, che spesso si rivelerà inadeguato. Di questa specifica situazione tratteremo comunque in futuro nella categoria del disconoscimento.

La supplica

4 Apr

Dopo aver affrontato un argomento corposo e complesso come il ruolo, ritengo che sia giunto il momento di passare a esempi pratici e significativi di comportamenti che comunque minano la credibilità del genitore.

Mi capita spesso di osservare mamme e papà che, disperati di fronte al diniego della piccola peste, si profondono in lamentose suppliche il cui stile non appare poi molto diverso da quello di certi furbi mendicanti che incontriamo quotidianamente sui nostri passi: “Faaate-la-carìììta-a-una-pooovera-madre-con-ciiinque-fiiili-piiicoli!” (e la Mercedes ultimo modello attaccata alla roulotte).

Esempio di modesta dimora costruita in Romania con le elemosine a beneficio dei ciiinque fiiili piiicoli.

Esempio di modesta dimora costruita in Romania con le elemosine a beneficio dei ciiinque fiiili piiicoli (foto personale).

Ecco, sappiate che, di fronte a scene cariche di tal pathos, la reazione del piccolo non sarà certamente diversa da quella che noi stessi con tutta probabilità esprimeremmo. Il bambino che, lo ricordo, è madrelingua emotivo, percepisce subito la debolezza dell’argomentazione e in particolare di chi la produce, e si regola di conseguenza (cioè non ci dà retta). C’è chi della supplica fa un sistema educativo: attenzione perché le conseguenze sul bambino (poi adulto) saranno sempre e inevitabilmente pari a quelle che scaturiscono dalla carenza di ruolo. Così, a seconda del carattere del piccolo, alcuni diverranno noiosi, patetici, evitabili; altri più determinati finiranno per far propria l’arte manipolatoria per usarla innanzi tutto proprio contro gli stessi genitori e quindi a danno della società.

Perciò sforziamoci di abolire dal nostro patrimonio di tecnica comunicativa i seguenti lamenti:

  • «Dai, Venanziuccio mio, fa’ i compiti per far piacere alla mammina dolce, pucci pucci kitty kitty…»

  • «Ma insomma, Clotildella cara, perché non mi aiuti a preparare la tavola, a me, che ti voglio tanto tanto tanto, ma tanto bene?»

  • «Giorgino, ti prego, quando sei con la nonna (paterna), versale la candeggina nella bottiglia del vino bianco; dai, fa’ il bravo, amore, ché la mamma non si sente molto bene e ha tanto, tanto bisogno del tuo aiuto per sopprimerla, eh?, cicci?»

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Bambino o Dio?

Il «ti prego» rivolto a un bambino, invece che a Dio, non farà sentire il minimo primo molto diverso dal Sommo Secondo e quindi invito caldamente a evitare simili atteggiamenti che col ruolo del genitore hanno ben poco di compatibile (è un eufemismo); e poi, vi avviso, rischiate di trovarvi in casa un estenuante mendicante in miniatura (oltretutto senza Mercedes né modesta dimora), di quelli che, alla prima occasione, “Maaaammaaaa, ti preeeeegooooo, daaaaaai, ti preeeeegoooo” eccetera…

«Mamma, ti pregooo!» La supplica è una tecnica abusata dai genitori e ovviamente i piccoli imparano...

«Mamma, ti pregooo!» La supplica è una tecnica abusata dai genitori e ovviamente i piccoli imparano…

Suggerirei di esprimere le richieste di svolgere un compito, in modo innanzi tutto coerente con l’esempio; cioè è inutile chiedere al bimbo di aver rispetto del gatto, se per primi si tende a centrifugarlo. Poi, sì a calma e dolcezza, ma senza fronzoli, versetti, «titti titti» eccetera, robe che persino il criceto penserebbe che lo consideriamo un idiota… Svolgere uno specifico compito, ad esempio aiutare ad apparecchiare, non è dal punto di vista formale un gioco e il bambino deve capirlo già dal tono della voce che esplicita la richiesta; dopodiché nulla vieterà (anzi è d’obbligo farlo!) di rendere il lavoro divertente e motivante, ad esempio giocando a ripetere i nomi delle stoviglie o proponendo un piccolo premio se il bimbo le posiziona nel modo corretto.

Ora vi confido un segreto su una tecnica comunicativa spesso efficace, non solo coi più piccoli: essa usa la forma interrogativa, la prima persona plurale e l’avverbio “insieme”: “Marco, che ne dici se apparecchiamo la tavola insieme?” E, dopo un accenno d’aiuto, lo si lascia continuare da sé complimentandosi con lui perché «Sai già fare bene tante cose da solo!» Provare per credere…

Genitore, non amico: il ruolo

2 Apr

Prima di affrontare un tema tanto astratto e di difficile formulazione come quello del ruolo, ho preferito illustrarne alcune deviazioni con due articoli esemplari perché pratici ed espressivi di una realtà piuttosto diffusa: il genitore che dà retta (o peggio, cede) al capriccio di un bambino o dimentica di stabilire e far rispettare alcune regole necessarie (i cosiddetti paletti), rinuncia più o meno consapevolmente al ruolo di genitore.

Ma che cos’è il ruolo e che ruolo è quello del genitore? Dei significati che il Dizionario Garzanti online ci fornisce del lemma ruolo, voglio sceglierne due che ritengo significativi: il 4° e il 6°.

     4) Funzione o atteggiamento assunto da un individuo all’interno di un gruppo sociale.

     6) Compito che in una squadra è attribuito al singolo giocatore.

Rielaborando queste definizioni nel contesto de «la Catena di #Elettra», deduciamo che il ruolo è una funzione, un atteggiamento che il genitore deve assumere nella famiglia, nonché un compito che il genitore ha nella squadra-famiglia. Sottolineo il concetto di squadra-famiglia perché la famiglia è innanzi tutto una squadra (sì, come quella di calcio!) in cui ognuno assume compiti (ruoli) ben precisi e tutti collaborano alla buona riuscita della partita-vita familiare. La famiglia non è e non dev’essere un insieme d’individui fra cui c’è chi comanda e chi esegue gli ordini, oppure in cui ognuno vive la propria vita in modo indipendente e avulso dal resto del nucleo. Nessuna squadra di calcio potrà mai vincere una partita con questo atteggiamento (ruolo), nessuna famiglia potrà mai ottenere risultati e vivere serenamente e con entusiasmo in questo modo. Serve perciò equilibrio fra individuo e gruppo.

La famiglia è una squadra in cui ognuno ha un ruolo e tutti hanno l'obiettivo di godere al meglio della vita di tutti i giorni.

La famiglia è una squadra in cui ognuno ha un ruolo e tutti hanno l’obiettivo di godere al meglio della vita di tutti i giorni.

Ora, il ruolo, la funzione primaria del genitore, è quello, istituzionale direi, dell’educatore, cioè il genitore deve educare il figlio, ovvero tirar fuori il suo meglio e renderlo autonomo, affiancarlo affinché diventi un adulto sereno ed equilibrato. Più avanti vedremo che anche i figli (o gli zii, i nonni) assumono ruoli ben precisi in famiglia (per esempio, devono aiutare nelle faccende della vita di tutti i giorni), ma mai dovranno assumere il ruolo dell’educatore, per esempio nei confronti dei fratelli più piccoli: gli educatori in famiglia sono e restano solo i genitori: NO quindi pure ai nonni che pretendono (o peggio cui è richiesto) di sostituirsi in questo compito al padre o alla madre del bambino. Di primo acchito si potrebbe perciò pensare al ruolo del genitore come a quello di una guida-chiave, ma in realtà un genitore è molto più di una semplice guida.

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Qualità del ruolo

La guida esercitata da un genitore dev’essere unica, autorevole e coerente, cioè il suo atteggiamento dev’essere insostituibile, credibile e di buon esempio. Un genitore che usa la coercizione come mezzo educativo mostra di essere debole, poco credibile, scarsamente autorevole, perché la violenza è il mezzo più semplice e spiccio per assicurarsi un risultato (che comunque in questo modo non si acquisirà mai): tutti sono capaci di farne uso, a cominciare da un bambino di due anni, e quindi il genitore coercitivo è e appare terribilmente immaturo oltreché “sostituibilissimo”… Inoltre egli non si mostra coerente perché dubito che un genitore desideri che il figlio impari a ottenere quel che vuole con le cattive maniere (quelle che invece proprio il genitore, incoerentemente, sta usando). Ben più credibile (autorevole) sarà invece il genitore che per primo dà il buon esempio assumendo di fronte a un compito o a una regola (per esempio, apparecchiare la tavola, non guardare troppa TV) lo stesso atteggiamento che si pretende dal figlio.

Infine, il genitore deve aver rispetto dei “compagni di squadra”, delle loro esigenze, dei ruoli che essi assumono nella famiglia, delle loro inclinazioni. Naturalmente si potrebbe pensare che il genitore possa esigere le stesse attenzioni dai compagni di squadra. In realtà egli avrà ben poco da pretendere se abdicherà al suo ruolo di genitore perché, non essendo credibile, gli altri membri avranno gioco facile nel screditarlo ulteriormente o semplicemente nel non dargli retta. Il genitore quindi non potrà mai pretendere rispetto dai figli, bensì dovrà meritarselo. Il “Tu sei mio figlio e quindi mi rispetti!” fa tanto scalpore e maschio del 1950, ma, nella realtà porta il figlio a porsi inconsciamente la piuttosto logica domanda: “E perché dovrei?” A seconda del carattere, le conseguenze saranno la ribellione o una timorosa sottomissione che condurrà a nevrosi per l’incompatibilità fra ciò che il bimbo crede in cuor suo (“Mio padre sbaglia!”) e ciò che egli è obbligato a mostrare al genitore (“Papà, hai ragione!”).

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Genitore-amico?

Spero che a questo punto del ragionamento sia chiaro perché un genitore non possa essere, come certi luoghi comuni falsamente esprimono, un amico, un fratello o una figura diversa dal genitore stesso. Un amico è soltanto una persona con cui abbiamo una disinteressata affinità di sentimenti; non necessariamente un amico ci dà il buon esempio e c’interesserà davvero poco se sarà credibile o meno; spesso, poi, non sarà nemmeno l’unico: gli vogliamo bene, ci andiamo d’accordo, ci passiamo del gran bel tempo insieme, spesso ci gratifica più di un genitore… ma non è un genitore! La posizione del fratello, poi, è ancor meno credibile di quella dell’amico: un genitore che assume il ruolo di un altro familiare è un usurpatore di ruoli che non ha rispetto per la squadra (s’immagini un difensore che pretende di fare l’attaccante) e come tale sarà prima o poi visto dal figlio.

Ciò non toglie che, in situazioni specifiche e puntuali, il genitore non possa anche comportarsi da amico o da fratello (in certe partite può mancare un giocatore e bisogna temporaneamente rimpiazzarlo), ma questo è ben diverso dal porre limiti spesso disastrosi a un ruolo tanto specifico, unico ed essenziale nella società.

Mi si permetta quindi di riassumere, rimarcandole, le conseguenze di un genitore senza ruolo sul bambino: questi crescerà senza guida, non capirà che esistono limiti (ufficializzati dal ruolo) in cui può muoversi liberamente, e, nel tempo, diverrà l’adulto insicuro, confuso e irrispettoso degli altri che abbiamo già conosciuto negli articoli sul capriccio e sulle regole. Provate a pensare a voi stessi e riflettete sul ruolo che i vostri genitori (o i vostri zii, nonni) hanno assunto per voi: vi aiuterà a schiarirvi le idee su questo concetto ostico da esprimere e mettere in pratica.

In chiusura, proprio per facilitarvi il compito, vi illustro un esempio dalla vita di tutti i giorni: se decidiamo d’infliggere una piccola punizione al bimbo inadempiente, non dovremo certamente mostrarci flessibili o assumere un atteggiamento incoerente con l’azione; importanti ai fini della manifestazione del ruolo sono, in questa specifica situazione, l’espressione seria (mai sorridere o addirittura ridere!) e il linguaggio fermo e risoluto (ma calmo!). La fratellanza o l’amicizia lasciamoli pure ai momenti di svago.

Poche regole ma confuse

28 Mar

Stavate riflettendo su alcuni vostri punti deboli e vi siete soffermati su una certa insicurezza che caratterizza il vostro modo di agire? Oppure ritenete di avere scarsa fantasia nel risolvere i problemi anche semplici che tutti i giorni costellano la vostra vita? Forse i vostri genitori non conoscevano l’uso adeguato delle regole

Le regole non sono un’invenzione delle educatrici nazistoidi di una volta, imposte giusto per assumere il controllo totale del pargolo. Esse costituiscono uno strumento essenziale al bambino per poter crescere in modo equilibrato; anche se non lo ammetterà mai, egli ha bisogno di sentirsi dire che cosa può fare e che cosa non può fare; ha bisogno di crearsi una mappa mentale virtuale degli “spazi” in cui può muoversi in assoluta libertà. Bambini cresciuti con una quantità o qualità di regole inadeguate, possono diventare rapidamente insicuri e infelici (anche da adulti) perché il messaggio che trasmettiamo al bimbo è, a seconda della configurazione di regole, “Arrangiati!” oppure “Non mi fido della tua capacità critica!” Quindi le regole sono uno degli strumenti essenziali con cui il genitore ha l’occasione di manifestare il proprio ruolo e accrescere la propria autorevolezza; fallire sulle regole significa mettere in discussione col bambino il proprio ruolo di genitore; vuol dire screditarci ai suoi occhi.

Non vorrei apparire troppo schematico, perciò annuncio subito che non sono favorevole a determinare una vita familiare basata sul Manuale delle Giovani Marmotte o, meno prosaicamente, su una Bibbia delle Regole o un Talmud che descriva nel dettaglio la soluzione pratica a ogni situazione possibile. Mi limito perciò a ripetere quel che scaturisce dal buon senso della nonna, che poi è una persona che ha commesso tanti errori nella sua lunga vita e qualcosa, da quegli errori, ha imparato: per un minimo di convivenza civile, in famiglia e in società, servono poche regole importanti, concordate, chiare, positive e fatte sempre rispettare.

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Regole di qualità

Le regole devono essere importanti. Sarebbe inutile, anzi dannoso (perché limita la creatività del bambino) cercar di stabilire un processo per ogni attività familiare; è utile limitarsi a quelle situazioni che, per esempio, mettono in pericolo l’incolumità del bambino (“Si cammina sempre sul marciapiede!”), gli impediscono una comunicazione efficace (“Si parla solo quando la mamma ha finito di parlare!”), limitano la sua maturazione psichica (“La TV si guarda al massimo per un’ora al giorno!”). Ognuno col proprio partner deve decidere quali sono i punti essenziali su cui deve basarsi la civile convivenza in famiglia, e codificare quei punti in regole. Va da sé che, essendo i punti essenziali, le regole dovranno essere poche.

Le regole devono essere concordate. Innanzi tutto fra i partner, che devono condividerle e promuoverle: entrambi devono essere intimamente convinti della bontà delle regole e consapevoli dell’obiettivo che, con esse, vogliono conseguire. Se uno dei due non è d’accordo, meglio lasciar perdere. Poi è utile anche concordarle col bambino, se questi è sufficientemente grande per capirle (3-4 anni); resta però fermo il fatto che se i genitori decidono che una regola è necessaria (per esempio, per la sua incolumità), il bambino dovrà comunque rispettarla, anche se con essa non concorda. Concordare le regole col bambino è utile perché questi accetterà più volentieri un accordo, che un’imposizione dall’alto; del resto ciò vale anche nelle intese fra adulti: faccio il project manager, potete fidarvi! 😉

Le regole devono essere chiare. Nessun bambino accetterà un’imposizione che non capisce. Inutile trattare la bimba di 4 anni come Fosca: “Quando ti lavi le mani, chiudi il rubinetto rimettendolo in posizione tale che il prossimo utente goda di una temperatura adeguata; poi asciugati bene le unghie e le mani, anche fra le dita; quindi, con lo stesso asciugamano, pulisci una a una le gocce d’acqua sul rubinetto e nel lavabo perché l’acqua di Milano è piuttosto calcarea e, con l’inflazione galoppante, il Viakal ha assunto un costo proibitivo!” Forse è più efficace un: “Prima di mangiare, bisogna sempre lavarsi le mani…” Se poi il bambino è sufficientemente grande (6-7 anni) si deve anche spiegare il perché della regola: “…perché l’igiene aiuta a non ammalarsi.” Insomma, siamo brevi, basiamoci su situazioni che il bambino possa comprendere al volo (“Prima di mangiare”, non “Quando ritieni di aver le mani troppo sporche per venire a tavola”) e usiamo parole semplici.

Le regole devono essere positive. Evitiamo l’uso del “non” e dei divieti: questi sono sempre percepiti come un sopruso o semplicemente non entrano nella testa (il “non” è facilmente ignorato dal cervello). Se vogliamo dirgli quindi: “Non uscire dal parco giochi!”, giriamola in: “Si resta sempre dentro il parco giochi!” “Non accettare caramelle dagli sconosciuti!” diventa così “Si mangiano solo le caramelle che ti dà la mamma!” (dando una bella enfasi su quel “solo”. L’uso della forma impersonale (“Si fa!”, non “Fai!”) fa sì che, almeno coi bambini più grandi, la regola sia percepita come universale; cioè non la deve rispettare solo il bambino, bensì vale per tutti e quindi… mal comune, mezzo gaudio! Altro suggerimento utile: usate sempre un avverbio con valenza assoluta, su cui porrete l’enfasi (osservate quelle paroline in corsivo nelle regole d’esempio che ho citato); ciò aiuta il bambino a capire che non si tratta di un semplice consiglio, bensì di una regola che non ammette eccezioni.

Le regole devono essere fatte rispettare. Non ha alcuno scopo imporre (anzi, concordare!) una regola, se poi non la si fa rispettare senza eccezioni. Anzi, poiché la natura ha programmato il cervello del bambino affinché colga immediatamente il nesso causa-effetto, se si transige sul rispetto della regola, questa sarà addirittura percepita come qualcosa di esplicitamente concesso… Quindi se non si ritiene di riuscire a far rispettare una regola sempre e comunque, è meglio non imporla del tutto.

Far rispettare le regole è meno difficile di quel che si pensi, ma, chissà perché, non ci si pensa mai: è sufficiente che quando il bambino si comporta secondo quanto stabilito, glielo si faccia notare e ci si mostri entusiasti e soddisfatti di “quell’ometto così bravo!” Anzi, diffondiamo una regola universale che permeerà «la Catena di #Elettra» fino all’ultimo articolo: i premi funzionano molto meglio delle punizioni; hanno solo il piccolo problema di essere azioni con effetto a medio-lungo termine (cioè, genitori, abbiate pazienza: i risultati arriveranno di sicuro!), mentre le punizioni hanno effetto a breve-brevissimo termine e, se ce l’hanno a medio-lungo, è sempre negativo, spesso traumatico. PS: Questa regola vale persino nell’educazione degli animali!

Ovviamente, se il bimbo non è stato abituato fin da piccolo a seguire regole, all’inizio ci troveremo di fronte a capricci e alla necessità d’imporre piccole punizioni. Importante è non intervenire mai con rabbia o manifesta preoccupazione (nemmeno se ha attraversato la strada senza consenso), bensì mostrarsi amorevolmente severi e dispiaciuti per “Quella regola che hai infranto…” Coi bimbi più grandi è anche essenziale spiegare che conseguenze sarebbero potute scaturire dall’infrazione: “Sulle strade passano le macchine e hai rischiato di essere travolto!

L’attenzione al capriccio

26 Mar

Entriamo nel merito de «la Catena di Elettra» trattando i più tipici errori di ruolo, dove per ruolo intendo quello di genitore e educatore. Descriverò pertanto in modo abbastanza schematico alcuni comportamenti inadeguati da parte del genitore in quanto genitore.

Francesco aveva imparato presto a ottenere ciò che voleva: già a 3-4 anni si lanciava in pianti isterici a ogni rifiuto da parte del padre, il quale rispondeva al capriccio chiedendo a suo figlio “perché” facesse quelle scene, ricordandogli (a 3 anni!) che in fondo lui stava dando al bimbo tutto ciò di cui aveva bisogno e bla-bla-bla elucubrazioni varie. Insomma, il capriccio del bambino diventava occasione di discussioni, contrattazione e gag tragicomiche in cui l’adulto usciva sistematicamente sconfitto.

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Perché fa i capricci?

Il «Sinnataggen» (Gustav Vigeland) presso il Vigelandsparken a Oslo.

Il «Sinnataggen» (Gustav Vigeland) presso il Vigelandsparken a Oslo.

Per capire come reagire in tale situazione, bisogna innanzi tutto sapere perché il bimbo fa i capricci. I bambini alla nascita si regolano esclusivamente in base alle emozioni che provano: fame, sete, sonno, paura eccetera. Man mano che la maturazione psichica progredisce, le emozioni lasciano sempre più spazio alla logica e al ragionamento; insomma il bambino “ideale” nasce come essere emotivo e pian piano diventa un individuo in cui emozioni e razionalità trovano il giusto equilibrio.

Va da sé che un bambino di 3-4 anni comunica ancora principalmente per emozioni. Quando percepisce un disagio, egli risponde più spontaneamente con pianti e strepiti che con un piuttosto innovativo: “Egregia Signora Mamma, desidererei continuare a giocare invece di prepararmi per uscire, ma Lei non me lo sta permettendo e perciò Le significo tutto il mio disappunto.”

Il capriccio è una richiesta d'attenzione inadeguata. Va ignorato.

Il capriccio è una richiesta d’attenzione inadeguata: va ignorato.

Siccome i bambini, come le cornacchie e i topolini, capiscono in fretta che a una specifica causa corrisponde uno specifico effetto, se il genitore darà retta a quella manifestazione inadeguata di richiesta d’attenzione, la prossima volta che si presenterà l’occasione di continuare a giocare invece di uscire, il bambino si profonderà in estrose improvvisazioni vocali in no minore, comunemente dette capricci. Quindi la soluzione è effettivamente quella che sentiamo ripetere spesso dagli educatori: il capriccio va ignorato [1]. Bisogna proprio fare come se il bambino non esistesse: lui cerca la nostra attenzione in un modo scorretto e noi, firulì firulà, continuiamo a fare le nostre cose come se nulla stesse accadendo, come se lui fosse invisibile. Quando poi il bimbo si sarà calmato, torneremo a concedergli tutta l’attenzione necessaria e dovuta. Occhio ché questa regola vale con tutti, dai zero ai centodieci anni: «Capriccio? NON ascolto. Comunicazione positiva? Sì, ascolto.»

Si ricordi il genitore ipersensibile cui dovesse “piangere il cuore” al vedere il bambino in quelle condizioni, che rispondere in qualsiasi modo a un capriccio significa far sì che, la prossima volta, il bimbo usi lo stesso metodo, oltretutto rinforzato («se funziona, diamoci dentro!»); la relazione genitore-figlio si farà così sempre più instabile e inquieta perché il genitore si sentirà sempre più debole e impotente di fronte alla piccola peste, la quale, siccome è ben più esperta di comunicazione emotiva rispetto a un adulto, se ne accorgerà e ne approfitterà ulteriormente. Oltretutto, è utile ricordare che un bambino abituato a ottenere ciò che vuole col capriccio, diventerà rapidamente una creatura infelice e poi un adulto che vorrà ottenere ciò che desidera con il lamento, l’imposizione, la violenza. Gran bel risultato, eh?

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Gestire le emozioni

È essenziale che il bambino impari a gestire e superare da sé le emozioni negative: mai intervenire durante o dopo un capriccio.

È essenziale che il bambino impari a gestire e superare da sé le emozioni negative: mai intervenire durante o dopo un capriccio.

Esiste un secondo intento, ancor più educativo, nell’ignorare il capriccio: lasciato alle sue emozioni, il bambino impara a gestirle; inizialmente egli si abbandona alla disperazione, ma alla fine pianti e strilli costituiscono una valvola di sfogo essenziale (ricordiamoci come ci sentivamo più distesi dopo aver pianto) ed è importantissimo che egli li conosca fin dalla più piccola infanzia e li sperimenti varie volte. Se impediamo al bambino di gestire da sé queste emozioni, negative ma innocue perché del tutto istintive e naturali, egli non sarà mai in grado di affrontare la sconfitta, la frustrazione; una volta divenuto adulto, queste condizioni genereranno pertanto in lui una rabbia irrefrenabile oppure la convinzione che “capitano tutte a me”, “sono sfortunato”. Mi raccomando, quindi, cari genitori: lasciate che il vostro bimbo attraversi tutto il capriccio senza intervenire!

Ciò detto è bene però precisare che non tutti i pianti e le urla così comuni nei bimbi più piccoli sono capricci; è essenziale che il genitore sappia distinguere un disagio vero (es. un dolore fisico, un sintomo) cui dovrà rispondere con gesti e parole di rassicurazione, da un disagio pur sempre vero, ma cui non si può né si deve porre rimedio. E’ poi evidente che capricci insistenti e ripetuti, anche senza malessere fisico, possono celare un disagio psichico che necessita di una risposta adeguata e professionale: il pediatra ha tutti gli strumenti per capire di cosa si tratta ed è in grado di consigliare la soluzione più adeguata.

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[1] A tal proposito si legga, per esempio, qui, qui e qui.

Mammaliturchi! (gli zombie)

22 Mar

È provato: gli zombie sono fra di noi! E sono molti piú di quelli che pensiamo…

Osservando con un po’ d’attenzione chi ci circonda, ogni giorno notiamo donne e uomini frustrati, poco sensibili, aggressivi: la collega che ci racconta solo gli avvenimenti negativi che hanno costellato la sua misera giornata, il tizio che lascia la porta sbatterci in faccia subito dopo essere passato, il conducente che ci impone insistentemente di fargli strada anche se stiamo per terminare un sorpasso e siamo genuinamente pronti a rientrare al piú presto. Gente giuridicamente viva, ma socialmente morta (o sulla via dell’ineluttabile declino).

Spesso, se ci soffermiamo a riflettere, ritroviamo in noi stessi una o più di queste condizioni emotive e sappiamo che è difficile, se non impossibile, liberarsene. Perché? Perché esse sono radicate in noi fin dall’infanzia; se proprio non scaturiscono da un trauma, sono il prodotto di precise azioni negative ripetute sistematicamente per anni da parte dei nostri genitori [1] nell’errata consapevolezza che “meglio che me ne occupi io!”, “adesso ho da fare!“, “una sculacciata ogni tanto serve!”. A volte gli zombie siamo proprio noi.

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Federica, Paolo e Francesco

Ho tre amici-zombie: Federica, Paolo e Francesco. Sono tre persone anagraficamente mature e molto diverse tra loro, ma condividono tre “disturbi emotivi” che inficiano quotidianamente e in modo radicale il loro benessere: l’insoddisfazione, l’infelicità e l’ansia. Essi sono irrequieti, insicuri e impulsivi: il lavoro non dà loro alcuna opportunità di riscatto, non sanno prendere una decisione, la relazione col partner e i figli è critica. Sono tre amici che non hanno mai potuto trovare un equilibrio e probabilmente non lo troveranno mai. La loro vita non è propriamente quella che un padre o una madre “normali” augurerebbero mai a un figlio, eppure questi delitti contro la persona accadono quotidianamente sotto i nostri occhi nei modi piú impensati: madri apparentemente innocue che allacciano le scarpe ai loro “bambini” di 13 anni rendendoli incapaci di badare a se stessi; padri irreprensibili che mettono i due figli in competizione (“Guarda com’è bravo tuo fratello!”) generando un adulto narcisista e arrogante, e un eterno immaturo, cronicamente convinto d’essere un idiota.

Federica è cresciuta in una famiglia di operai precari; i suoi genitori capirono presto l’importanza di avviare la loro unica figlia verso una condizione di maggior stabilità e in particolare la mamma programmò la vita della fanciulla fin nei minimi dettagli, dedicandole ogni risorsa economica: lunedì e giovedì pianoforte, martedì e venerdì piscina, il mercoledì catechismo; sabati e domeniche passate ad aiutare nello studio una bambina molto volenterosa, che otteneva risultati eccellenti in qualunque disciplina si cimentasse. Era una mamma amorevole ma ossessionata dal desiderio che sua figlia si sentisse sempre serena, protetta e accudita; era impellente in lei il desiderio che la bambina si emancipasse dalla condizione in cui la famiglia viveva; insomma, per sua figlia voleva il meglio, il «salto di classe». Dopo la laurea in farmacia con 110 e lode, Federica trovò subito lavoro, si sposò ed ebbe figli, ma non si mosse mai da quella che fu la sua prima occupazione e scivolò presto nello sconforto, nello scetticismo e nella depressione, oltre a manifestare fobie e ossessioni per le quali è tuttora in cura presso un professionista.

Paolo era un bambino geniale: leggeva e scriveva a tre anni, nutriva mille interessi; cresciuto in una famiglia benestante, fu stimolato fin da piccolo all’arte, all’osservazione, al pensiero critico. Il padre, uomo estroverso e ottimista, era un pittore di media capacità. Ma. C’è un «ma» grande come una casa. Sua madre, un’insicura che pure era riuscita a trovare una sua strada (dirigeva una PMI di successo), autoritaria quando l’autorevolezza le faceva difetto, non era in grado di manifestare alcuna emozione, praticava il culto del controllo su tutto e tutti, e, last-but-not-least, aveva «l’alibi del lavoro». L’alibi del lavoro è quella condizione morbosa secondo cui la professione esercitata deve avere la priorità su tutto e tutti perché “ho una famiglia da mantenere!”, “il lavoro è una roba importante!”, “la gente seria parla poco e si dà da fare!”

Francesco era un bambino dolce e sensibile; la sua famiglia apparteneva a quella che oggi potremmo definire classe media: una vita normale in una grande città, con tanto lavoro e qualche soddisfazione. La mamma di Francesco era una donna insicura e fragile, in perenne conflitto col marito; non partecipava in modo attivo all’educazione del figlio, anche se talvolta era in grado di manifestare affetto in modo spontaneo e intenso. Il padre, un uomo di gran senso pratico ma emotivamente instabile, era aggressivo, alzava spesso la voce e prediligeva un linguaggio profetico (con tanto di ditino teso), dichiarativo e risoluto; a volte mollava pure qualche scapaccione perché “in certi frangenti funzionano molto piú di tante parole!”. Francesco chinava la testa e replicava tra i denti, scoppiando spesso in pianti isterici e inconsolabili.

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Di chi è la colpa?

Pur coi loro difetti, potremmo dirle tre famiglie relativamente normali, plumbea mediocritas, ma che tuttavia hanno generato tre “mostri”, tre infelici, tre vite forse buttate, sprecate nell’impotenza di un irrinunciabile imprinting emotivo. Domanda: di chi è la “colpa”? Analizzando il comportamento dei genitori di Federica, Paolo e Francesco, è intuitivo che essi abbiano giocato un ruolo-chiave nella formazione del carattere dei propri bambini, poi divenuti adulti frustrati. Ma scavando un po’ piú a fondo nella genealogia scopriamo che:

  1. il desiderio di protezione nei confronti di Federica (la collega depressa) è frutto dell’abbandono della mamma in un orfanotrofio da parte dei nonni;

  2. il bisogno di controllo della mamma di Paolo (il tizio che ci sbatte la porta in faccia) scaturisce da una “reazione” alla totale assenza di ruolo dei nonni, ciò che produce insicurezza a causa dell’assenza dei necessari riferimenti forti;

  3. l’aggressività verbale e fisica del papà di Francesco (quello che “spòstati ché passo io!”) è conseguenza diretta dello stesso comportamento del nonno.

E se ci soffermassimo a pensare quale potrebbe essere il comportamento di Federica, Paolo e Francesca nei confronti dei loro stessi figli? Difficile credere a uno sbocco positivo, se i tre: 1) non si documentano sugli effetti nefasti della “cattiva educazione” subita e su quali specifici comportamenti producano disastri certi nei propri bambini; 2) dopo essersi informati, non si soffermano a riflettere su se stessi, cercando di identificare le azioni dei dei propri genitori che hanno prodotto le debolezze che li affliggono, nonché su eventuali ulteriori fragilità sviluppate per altri eventi della vita; 3) non si esercitano nell’arte pratica di evitare il ripetersi degli stessi errori nell’educazione dei propri figli.

Insomma, sembra che questa maledetta catena generazionale del vizio, intesa come il perpetuarsi, l’“inoltro”, la trasmissione generazionale di metodi educativi discutibili, produca effetti ben poco virtuosi sul nuovo nato; pertanto è lapalissiano che qualcosa di concreto per contrastarla debba essere fatto…

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Il progetto

Poiché dicono che nella vita bisogna anche dedicarsi agli altri per concedersi un senso nella società, col mio blog vorrei contribuire a ridurre la quantità di zombie in circolazione. Come? Invitando i genitori potenziali o reali a riflettere sulla concreta possibilità che essi stessi possano essere portatori (sani o meno [2]) di vizi educativi.

Elencherò quindi in modo schematico e semplice i “metodi educativi” errati che osservo piú frequentemente fra i genitori italiani. Ogni lettrice o lettore del blog potrà usare questo strumento a piacimento, in totale intimità e riservatezza, per riflettere sull’impatto che uno specifico comportamento dei propri genitori può aver avuto su se stessa/o; oppure potrà valutare con piú cognizione di causa le conseguenze che ogni proprio specifico comportamento può comportare per i figli. In molti casi offrirò semplici suggerimenti empirici e pratici su come evitare il danno.

Cosí facendo, spero, pur nel mio piccolo angolo virtuale, di contribuire a migliorare l’equilibrio e la maturità della nostra società; desidero spezzare quella maledetta catena generazionale che fa sí che gli errori educativi dei nonni, proiettati sui figli, finiscano per inficiare l’equilibrio emotivo, la serenità, la vita dei nipoti e di chi con loro si trova a condividere il proprio cammino. E cosí via, nell’immancabile succedersi delle generazioni umane.

Ho pensato di strutturare questo progetto in sei parti, qui divise in categorie: un’introduzione (cui appartengono questi due articoli), gli errori di ruolo, l’incoerenza, la violenza, l’inganno e il disconoscimento. A parte l’introduzione, ognuna delle categorie rappresenta un raggruppamento di comportamenti scorretti del genitore, che finiscono con l’ottenere specifici comportamenti scorretti del bambino (che poi diventa adulto, ricordiamolo). Col primo articolo entriamo pertanto nel nocciolo della questione affrontando le principali devianze dal difficile compito cui il genitore è preposto.

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[1] O chiunque abbia per noi costituito nell’infanzia una figura di riferimento forte.

[2] Spesso i vizi educativi dei genitori sono evidenti e automaticamente traslati nel comportamento del figlio. Per esempio, un nonno violento può facilmente rendere manifestamente violento il proprio figlio, che quindi, da adulto, adotterà lo stesso metodo col nipote (urli e sculacciate “quando ce vo’!”). In altri casi, a seconda del contesto e dell’indole della “vittima”, da un’educazione violenta può scaturire un atteggiamento remissivo e insicuro; un individuo apparentemente calmo, ma pronto a esplodere come un ordigno nucleare ad ogni superamento del limite di tolleranza della frustrazione.

Educazione e mitologia

20 Mar

Educare non significa “metter dentro”, bensí “tirar fuori” (nell’accezione intensiva latina di e + ducere). Significa aiutare il bambino a tirar fuori la sua indole, i suoi interessi, la sua strada congeniale. Significa aiutare il bambino a diventare autonomo; a sviluppare un equilibrio interiore dato dalla consapevolezza dei propri punti di forza; ad ascoltare, capire e rispettare gli altri.

Angelita di Anzio (Sergio Cappellini)

Angelita di Anzio (Sergio Cappellini)

L’educazione non è dunque insegnamento; è un percorso su cui ogni genitore dovrebbe affiancare (non condurre!) il proprio figlio. Imparare a educare non è facile: è un esercizio di costante e delicato equilibrio, come andare in bicicletta. Di piú, è un’arte sopraffina che, se esercitata nei modi opportuni, conduce a risultati straordinari; se lasciata al caso, all’intuito, all’impeto del momento, porta quasi sempre al disastro. Quando ci si accinge ad affrontare il compito, sembra tutto cosí complicato, ma esistono semplici stratagemmi per semplificarsi la vita. Ad esempio, prima di agire in un certo modo, il genitore dovrebbe porsi due domande essenziali:

  • Che messaggio sto trasmettendo a mio figlio con quest’azione?
  • Quali conseguenze ha tale messaggio su mio figlio?

Il solo soffermarsi a riflettere seriamente su questi due punti permette di evitare la maggior parte degli errori (quelli piú gravi!) che inevitabilmente si commettono in un ruolo tanto complesso.

Un altro modo sicuro, ma meno banale, di evitare problemi è di fare autocritica e pensare alle proprie debolezze, ai propri “difetti”. Poiché con ogni probabilità ognuno di questi deriva da errori educativi commessi dai propri genitori, è opportuno identificare quali siano stati esattamente tali errori. Ho una buona e una brutta notizia per voi: la brutta è che probabilmente rischiate di fare coi vostri figli un copy-paste degli errori che i vostri genitori hanno commesso con voi; la buona è che se individuate gli errori dei vostri genitori (e questo blog vi aiuterà) e vi mettete un po’ d’impegno, eviterete di ripeterli coi vostri figli.

Infine, se esiste una regola d’oro, è quella d’informarsi; esistono migliaia di libri, siti e persino trasmissioni televisive [1] con cui documentarsi e la reiterata applicazione di metodi educativi improvvisati non è piú scusabile. È ovviamente meglio informarsi prima di aver figli, ma se si è già genitori e per i piú svariati casi della vita non si è ancora provveduto, meglio farlo al piú presto: ne va dell’equilibrio di un bambino, che non è un prolungamento o una proprietà dei genitori, bensí un essere unico, pensante, insostituibile, irriproducibile, candidato adulto maturo e autonomo, che ha il diritto di essere educato. E i genitori hanno il dovere (attenzione: anche giuridico!) di educarlo.

Elettra (Frederic Leighton)

Elettra (Frederic Leighton)

È probabile che Elettra si sia soffermata a riflettere seriamente sulle conseguenze di ogni azione educativa intrapresa a favore dei suoi due pargoli, Medone e Strofio II, perché di questi due personaggi sappiamo poco o nulla e quindi mi piace credere che abbiano vissuto un’esistenza piú equilibrata e serena di quella della loro mitica madre. Elettra seppe spezzare la sua personale, viziosissima catena generazionale fatta di delitti e soprusi, a totale beneficio dei figli. Invito pertanto i miei lettori a focalizzarsi sulla propria “catena educativa generazionale” e, se necessario, a usare il tronchese della ragione per evitare di trasmettere ai propri figli quei “vizi” che li renderebbero eterni dannati nella vita terrena.

Questo è il primo articolo de la Catena di Elettra. Sarò lieto di ricevere commenti, consigli, critiche, insulti e amenità varie; pertanto scrivete pure qui sotto a sinistra quel che desiderate e buon divertimento!

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[1] Ad esempio, S.O.S. Tata o Adolescenti: Istruzioni per l’uso.