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L’abbandono nelle decisioni

17 Mag

Siamo giunti all’ultimo articolo sull’argomento degli errori di ruolo, fra quelli pianificati fin dall’inizio de «la Catena di #Elettra»; tuttavia, se dovessero sorgere altri spunti personali o da parte di voi, cari lettori, sarò lieto di aggiungerli in seguito.

Generalmente il bambino mostra, rispetto a noi adulti, qualche difficoltà in più a decidersi. Se gli proponete un armadio pieno di magliette e lo invitate a scegliere, spesso passerà minuti interi a capire che cosa indossare e più facilmente ripiegherà su un capo a portata di mano, uno a caso, o a ciò che mette più spesso. Perché? Semplice! Perché il bambino è abitudinario: egli trova nelle regole e nella regolarità dello svolgimento delle azioni quotidiane il suo più potente ansiolitico. Una decisione è invece un momento di crisi (il significato letterale di questo termine in greco è, appunto, “decisione”) perché la necessità di una scelta rompe il pacifico flusso delle cose di sempre.

Abbiamo visto negli articoli precedenti quanto è importante che il genitore eserciti il suo ruolo, affiancando (non guidando!) il bambino nei momenti di difficoltà, per esempio quando non vuole o non riesce a svolgere un compito; il genitore dovrà quindi facilitare anche un esercizio arduo (lo è spesso per un adulto, figurarsi per un bambino) come scegliere.

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L’imbarazzo della scelta

Alcuni di noi si trovano in difficoltà persino davanti a una decisione semplice come valutare il giusto paio di scarpe o un breve itinerario fra due. Forse ciò avviene proprio perché i nostri genitori, un po’ carenti di ruolo, non ci hanno aiutato a costruire gradualmente quella sicurezza in noi stessi, quella consapevolezza delle nostre capacità, necessarie per svolgere persino le cose più semplici di tutti i giorni. Repetita iuvant: il ruolo del genitore, e la sua corretta messa in pratica, sono fondamentali per rinforzare il carattere e quindi il benessere del bambino che poi sarà adulto. Affiancare (non guidare!) il bambino nelle decisioni è un’occasione estremamente positiva per esercitare il ruolo del genitore.

Affiancare, come ormai sappiamo bene, non significa guidare il bambino o sostituirsi a lui; in questo contesto, non significa decidere per lui. Affiancare significa rendere un compito più agevole dal punto di vista emotivo, prima ancora che pratico. Così, per esempio, sarà importante motivare positivamente nostra figlia se, dopo un intero anno di danza (attività da lei scelta e che l’ha sempre appassionata), sarà titubante a presentarsi al saggio finale (grazie a Cristiana Calilli, @100per100mamma, per lo spunto); rinforzeremo emotivamente la nostra bambina ricordandole i successi fin lì ottenuti, quanto è migliorata, ed esprimendole complimenti sinceri ed entusiasti. Sarà anche importante cercar di capire il motivo che porta il nostro bambino a fermarsi di fronte a una difficoltà leggermente superiore: forse la prossima volta cercheremo di rinforzare i comportamenti positivi di nostro figlio lungo tutto il percorso dell’esercizio. Nel caso della danza, quindi, forse l’anno prossimo dovremo dialogare di più con nostra figlia quando torna da lezione, mostrandoci regolarmente interessati ed entusiasti dei suoi risultati (senza però sconfinare nel deleterio: “Mio figlio è un genio!”)

A tre anni un bambino si veste da solo (e se non lo fa ancora, care mamme, è un’ottima occasione per recidere il cordone ombelicale…), ma non riuscirà probabilmente a scegliere quali vestiti mettersi; sarà perciò importante che il genitore eserciti il suo ruolo corretto selezionando, per esempio, tre magliette/camice mostrandole al bimbo in modo che questi possa confrontarle e decidere quale indossare. Una volta scelta la maglietta, sarà la volta dei pantaloncini, che il genitore avrà sapientemente scelto fra quelli abbinabili alla maglietta (così col tempo il bambino imparerà da solo il gusto dell’abbinamento); poi si passerà al maglioncino e così via.

Chiaramente dovremo dedicare un po’ più di tempo al “rito della vestizione”, rispetto al caso in cui il genitore si sostituisca al bambino scegliendo i capi per lui e magari pure impedendogli di far da sé nel vestirsi (azione molto diseducativa: ne discuteremo quando tratteremo la sostituzione, nella categoria del disconoscimento), ma nessuno su «la Catena di #Elettra» ha mai scritto che l’educazione è cosa semplice. Quindi, care mamme e cari papà, sarà necessario che prevediate nei vostri tempi mattutini qualche minuto in più per il bene psichico di vostro figlio. La fast education è come il fast food: fa schifo, anche se in qualche sporadico caso può servire; alla lunga, però, nuoce gravemente alla salute…

I NO senza alternativa

12 Mag

Nell’articolo sulle regole abbiamo volutamente tralasciato quella più diffusa, ma spesso applicata a sproposito: il NO. Questa parolina magica e la sua fonetica perentoria costituiscono la forma più semplice di regola, il suo simbolo, l’ideogramma primario. Abbiamo ricordato che se instauriamo una regola, è essenziale farla rispettare sempre e comunque, pena la perdita del ruolo, dell’autorevolezza del genitore. Il NO (lo scrivo tutto in maiuscolo perché è uno degli strumenti educativi di base da non perdere mai di vista) non fa eccezione. Riprenderemo questo pilastro educativo in uno specifico articolo nella categoria della coerenza.

NO!Il NO è un paracarro posto in un tornante sul precipizio: va da sé che dev’essere realmente motivato (inutile ripeterlo: al di là, dev’esserci un vero pericolo fisico o psichico per il bambino), estremamente solido (cioè il genitore non deve cedere mai) e invalicabile (pena la caduta del bimbo nel baratro dell’insicurezza o del pericolo).

Tuttavia molti genitori mi fanno notare che, specie coi bimbi più piccoli, non è facile limitare i NO a un numero ragionevole e senza fastidiose, frustranti ripetizioni; a tal proposito è utile fin da subito ricordare che le serie interminabili di NO, specie se immotivate perché si riferiscono ad attività normali per il bambino (esempio classico: “Non correre!”, “Non sudare!”, “Non sporcarti!”), finiscono per passare totalmente inosservate. I NO, essendo una regola, devono seguirne le… regole: pochi, importanti e fatti sempre rispettare.

Onde evitare un inutile e controproducente moltiplicarsi d’improbabili dinieghi, ritengo quindi importante ricordare che ogni NO dovrebbe sempre offrire un’alternativa: “NO, adesso non si può guardare la TV; perché invece non fai [elencare 2-3 alternative su attività che appassionano il bimbo]?”; se il bimbo è abbastanza grande (in età scolare), è necessario aggiungere una spiegazione: “NO, in questo momento non si può uscire perché sta arrivando un temporale ed è pericoloso per i fulmini; perché piuttosto non… eccetera?” Se distraiamo il bimbo senza necessariamente ricorrere all’inganno (come faremmo se lo piazzassimo davanti alla maledetta teletatacattiva: la TV), lo coinvolgeremo positivamente, egli si dimenticherà presto dell’idea iniziale e avremo salvato capra e cavoli.

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Attenzione al linguaggio!

Come per le regole, un piccolo suggerimento sul linguaggio: specificare sempre il NO all’inizio della frase; quindi usare la forma impersonale per esprimere il divieto; infine, se il NO si riferisce a una negazione valida per un periodo limitato di tempo, aggiungere un avverbio o una locuzione che conferiscano temporaneità al divieto; molti studi sulla comunicazione concordano nell’affermare che il “non” è ignorato dal cervello; pertanto, imporre un semplice “Non uscire!” al nostro bimbo, strano ma vero, potrebbe risultare nell’interpretazione opposta: “Esci!” Questo è uno dei motivi per cui molti bimbi piccoli non ascoltano per nulla i divieti: “Non far questo!”, “Non far quello!” diventano una mera istigazione a combinar danni…

NO, adesso non si esce!” ha tre vantaggi: la frase comincia con un “NO” netto e inequivocabile; la forma impersonale non è interpretata dal bimbo come un attacco personale e quindi è digerita meglio; “adesso” fa sì che il bimbo capisca che, se la condizione cambia (ad esempio il tempo migliora), il NO potrà decadere. Attenzione all’uso della forma impersonale ché potrebbe non risultare sempre preferibile: coerenza vuole che essa non si debba adottare se uno dei familiari deve uscire malgrado il temporale (magari per andare al lavoro); il “non si deve” vale per tutti i membri della squadra-famiglia e quindi, se si prevede che qualcuno debba uscire comunque, meglio ripiegare sulla cara vecchia seconda persona singolare: “NO, adesso non puoi uscire!”

Affiancamento, non gestione

8 Mag

Su Twitter sono spesso accusato di voler creare «piccoli automi» o improbabili «bimbi perfetti»; in realtà lo scopo de «la Catena di #Elettra» è esattamente l’opposto. Non è facile argomentare la complessità dell’educazione nel Letto di Procuste dei 140 caratteri; se a ciò uniamo la tendenza di molti “cari connazionali” di saltare alle conclusioni senza soffermarsi sui dettagli [1], la comprensione risulta spesso stravolta e ciò qualche volta mi obbliga a “segare” certi personaggi che tanto non cambieranno mai atteggiamento e opinione. A titolo compensativo, confido sempre molto nel buon senso dei tanti moderati che leggono le scaramucce verbali twitteriane ed “elettriche”, riflettendo in silenzio. Ne ho continua conferma dai messaggi privati che molto volentieri ricevo.

A proposito: se volete scrivere un articolo per la Catena di #Elettra, inviatemi pure un messaggio privato su Twitter a @VaeVictis: vi comunicherò volentieri la mia mail o il mio telefono; questo non è il blog di Bruno de Giusti, bensì un centro di discussioni sull’educazione e i suoi metodi universalmente consolidati e ritenuti validi (tranne in Italia e qualche altro Paese latinoide…)

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L’importanza del far da sé

Dicevo, è proprio osservando certi genitori e il comportamento dei loro figli così insicuri che ci rendiamo conto di quanto sia importante rendere autonomo e indipendente un bambino. Quanti di noi si sentono spesso frustrati perché dobbiamo iniziare un compito e rimandiamo perché “forse non ci riuscirò”, “non sarà certo facile”, “non ne ho voglia”, “ho paura di fallire” eccetera? Lavoro che poi spesso svolgiamo e terminiamo con sorprendente rapidità e successo; tuttavia iniziarlo è spesso un problema e qualche volta anche portarlo a compimento…

Perché il bambino diventi autonomo è necessario lasciare che faccia il più possibile da sé, eventualmente affiancandolo.

Perché il bambino diventi autonomo è necessario lasciare che faccia il più possibile da sé, eventualmente affiancandolo.

Voi capite bene che se non educhiamo un bambino a far da sé, a rendersi consapevole delle proprie capacità, la condizione da me evidenziata si trasformerà in un ostacolo, a volte un vero e proprio incubo, un concreto impedimento nella vita di tutti i giorni, nella famiglia, nel lavoro, nella carriera, nell’ottenimento del successo e delle soddisfazioni che rendono la nostra esistenza meritevole di esser vissuta. Anche in questo caso ci riconduciamo alla frustrazione del bambino-uomo che, “grazie” ai genitori, mai è diventato adulto e pertanto riterrà di essere “inferiore” a chi, invece, del compito (inteso come attività che deve cominciare, ha uno svolgimento e termina possibilmente con successo) avrà fatto un’abitudine, una regola di vita.

La sintesi di questo breve discorso si esprime in un importante concetto educativo: la gestione del bambino non lo renderà mai autonomo. In ogni compito che egli si trova a dover svolgere, dall’abbottonarsi la camicia al problema di matematica, il bambino non dev’essere mai “guidato”; al più “affiancato”. Per “affiancare il bambino”, si intende che il genitore deve:

  1. spiegargli con parole semplici e chiare che cosa deve fare, se non sa ancora farlo;

  2. lasciargli sperimentare l’attività senza intervenire, anche se inizialmente egli dovesse commettere errori;

  3. motivare positivamente il bambino a cominciare il compito e a condurlo sempre a termine.

La motivazione dev’essere un rinforzo positivo: ad esempio solleciteremo il bambino a cominciare l’attività perché “stai diventando grande e quindi sono sicuro che saprai svolgere benissimo questo compito da bambino grande come te!” E quando dovesse trovarsi in difficoltà, sarà pure essenziale ricordargli che “sei molto bravo perché finora hai saputo fare tutto da solo e sono certo che terminerai il compito con successo!”

Ricordiamoci che per motivare un bambino è essenziale mantenere il ruolo del genitore/educatore che è forte della consapevolezza che ogni bambino impara qualsiasi compito, se solo vi si dedica adeguatamente: la nostra voce e l’atteggiamento devono essere quelli di una persona convinta che il lavoro sarà svolto senza il minimo dubbio; è il concetto francese del “pas possible autrement”: non può essere che così!

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Esempi di compiti alla portata di un bambino

Piccolo appunto importante: ogni bambino è in grado di svolgere qualsiasi compito alla sua portata fisica e cognitiva. Con ciò intendo che, evidentemente, non potremo pretendere che sviti la ruota di un camion o risolva un’equazione differenziale (salvo casi davvero particolari), ma, credetemi, un bambino di sette anni è perfettamente in grado di:

  • raccogliere le comande di una tavolata e trasmetterle al cameriere;

  • leggere da sé e capire un intero libro di racconti, anche non necessariamente per bambini (attenzione: niente trame dell’orrore, violente o comunque inadeguate!);

  • bagnare l’orto o le piante sul balcone, anche programmandone l’irrigatore automatico;

  • prendersi cura di un piccolo animale (un coniglio, un gatto) dalla A alla Z;

  • dipingere un quadro con tecniche specifiche.

Va da sé che un bambino di due anni è perfettamente in grado di mangiare senza intervento di un adulto (prevedere un microambiente in cui egli possa sporcare e sporcarsi liberamente); a quattro anni sa vestirsi del tutto da sé; a sette anni io riparavo le prese di casa dopo aver tolto la corrente intervenendo sullo specifico interruttore di sei e guidavo una FIAT 127 in ambiente protetto… Credetemi: possono farlo davvero tutti, se davvero lo desiderano; a dodici anni un ragazzino è fisicamente e psichicamente in grado di gestire un’azienda e pilotare un aereo di linea… All’estero questi concetti non sono favole di un sognatore; da noi i bambini sono invece sempre più spesso limitati dalle ansie e dalle istruzioni dei genitori, persino nelle azioni più naturali come mangiare da sé, allacciarsi un paio di scarpe, fare i compiti, prepararsi per la notte eccetera.

Con gli esempi sopra esposti non intendo affermare che per rendere autonomi e indipendenti i nostri figli dobbiamo insegnar loro compiti da adulti, ci mancherebbe! Tutto deve venire da sé, dal bambino stesso, rispettando le sue inclinazioni e i suoi tempi. Può però accadere che alcuni mostriciattoli vogliano proprio cimentarsi in imprese specifiche, particolari, inusuali e se davvero pensiamo che possano esservi portati (cioè lo farebbero volentieri e mostrano motivazione), proviamo a lasciar loro svolgere il compito da sé, affiancandoli e vigilando sulla loro sicurezza, se necessario.

P.S. Commento di mia moglie, che italiana non è: «Certo che sembra incredibile dover scrivere cose di questo genere, che ognuno dovrebbe arrivare a capire da sé…»

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[1] Quella che definisco «Sindrome del titolo» riferendomi a chi trae conclusioni dal titolo di un articolo, invece di leggerlo.

Premi e punizioni fuori luogo

18 Apr

Immaginiamoci un mondo in cui:

  1. all’assunzione per un nuovo lavoro, ci viene corrisposto l’intero stipendio di un anno più l’eventuale bonus;

  2. dopo un anno di lavoro non abbiamo concluso nulla e ci viene corrisposto un ulteriore bonus;

  3. cambiamo lavoro e il nuovo datore ci dice subito che non ci corrisponderà lo stipendio per un anno perché tanto sa benissimo che non concluderemo nulla;

  4. dopo un anno il nostro capo ci assegna un nuovo compito senza spiegarci alcunché su come svolgerlo e anzi dandoci istruzioni del tutto fuorvianti; poi ci obbliga a portarlo a termine, sbagliamo e alla fine ci licenzia.

Come reagiremmo noi di fronte a situazioni come le quattro appena viste? Be’, probabilmente la prima parte della 2) spiega in modo eloquente la conseguenza del punto 1), no? E con tutta probabilità l’anno successivo combineremmo meno ancora… Inoltre, con quale entusiasmo affronteremo la situazione 3)? E dopo il verificarsi della 4) come ci sentiremmo?

A dispetto di decine di migliaia di generazioni, l’uomo rimane un essere che trae immensa soddisfazione dal nutrirsi dopo aver cacciato, e ricava motivazione alla caccia dalla necessità di nutrirsi; così pure la donna trae immensa soddisfazione dall’abbracciare il neonato dopo il parto ed è ben disposta ad affrontare un atto tanto doloroso considerando la grande soddisfazione successiva. Allo stesso modo, entrambi solitamente rispondono con rigetto e violenza alle soperchierie, cioè non accetterebbero mai istintivamente un’aggressione senza motivo, quale una punizione ingiusta è considerata. Va da sé che il premio e/o la punizione devono essere adeguati e seguire temporalmente l’azione per cui sono previsti.

Nei quattro punti sopra c’è quindi qualcosa che non va, vero? Be’, sappiate che contraddizioni di quel tipo si verificano quotidianamente in molte famiglie, anche se le dimensioni degli eventi non necessariamente raggiungono i livelli di sensazionalità qui sopra esposti. Vediamo alcuni esempi:

  1. poiché l’undicenne ci ha garantito che dopo farà i compiti, lo lasciamo giocare alla playstation;

  2. dopo mezz’ora, il ragazzo non si è ancora staccato e ci limitiamo a ricordargli che poi dovrà fare i compiti;

  3. un mese più tardi decidiamo di non rinnovargli l’abbonamento alla piscina perché tanto ormai sarà bocciato;

  4. una domenica mattina il papà gli chiede di aiutarlo a lavare la Mercedes nuova fiammante; durante il compito, al ragazzo cade la spugna; senza farci troppo caso, egli la raccoglie e continua il lavoro; purtroppo però, un sassolino che si era insinuato tra le fibre riga irrimediabilmente la carrozzeria. Il babbo dà dello stupido al figlio e lo punisce vietandogli per una settimana di uscire con gli amici.

Certi genitori resteranno increduli, ma posso loro garantire che situazioni di questo genere – che considero grottesche e farebbero sorridere se non producessero danni gravi nella psiche delle piccole vittime – si verificano in molte famiglie (e non solo). Si tratta di gravi errori di ruolo, perché è propria del genitore la responsabilità di educare i figli usando metodi universalmente ritenuti validi: il premio è uno strumento educativo estremamente efficace, molto più della punizione che comunque – in casi e a età specifiche – ha un suo scopo; entrambi vanno tuttavia applicati e dosati con equilibrio, intelligenza e logica.

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Le conseguenze

Ora approfondiamo le conseguenze di un premio o una punizione fuori luogo. L’undicenne non avrà alcuno stimolo a cominciare i compiti; anzi cercherà di protrarre il gioco (l’unica cosa che in quel momento gli interessa) fino a quando la mamma non gli requisirà l’oggetto, cosa che non è per nulla garantito che avvenga. Premiare un bambino prima che questi abbia svolto un compito in modo adeguato è fuorviante e diseducativo: non si ottiene lo scopo che ci si è prefissi e anzi si invoglia il bimbo a non portare per nulla a termine il compito richiesto. Il premio va corrisposto solo al termine dell’azione e solo se questa è stata svolta con adeguato successo.

La punizione non deve mai vertere su attività che per il bambino sono positive, benefiche: fare sport, praticare un’arte, visitare un centro educativo eccetera; le camerette dei nostri figli abbondano di inutilia varie ed è opportuno, semmai, privarli di una di queste: “Se non farai i compiti entro le cinque, non potrai giocare alla playstation per una settimana!” La punizione che ha per oggetto un’attività benefica ha più il sapore del ricatto che del castigo: ne parleremo nella categoria della violenza psicologica.

Come per il premio, la punizione deve avvenire solo dopo che l’attività o l’evento si sono svolti: punire l’intenzione o basarsi sulla supposizione di un probabile fallimento sa tanto di Torquemada e va contro la logica di causa-effetto. L’adulto cresciuto in tali contraddizioni non potrà che manifestare aggressività e demotivazione profonde verso qualunque attività necessaria anche se non desiderabile.

Se si vuol far svolgere al bambino un determinato compito, è necessario:

  1. che esso sia adeguato all’età e alle capacità del bimbo; inutile fargli studiare musica se per dieci anni non l’ha mai nemmeno ascoltata: non la capirà e sarà fonte di frustrazione per tutti;

  2. spiegargli nel dettaglio il compito e supervisionare il bambino in modo discreto, intervenendo amorevolmente quando commette errori-chiave (che possono metterlo in pericolo o pregiudicare radicalmente il risultato) e motivandolo se incontra difficoltà;

  3. premiarlo se il compito è riuscito in modo decente e farlo proporzionalmente alla qualità del risultato; discutere con lui se le cose non sono andate come ci si aspettava e in particolare stimolarlo a proporre nuove idee su come svolgere il compito con maggior successo la prossima volta (e per questa volta non premiarlo, bensì riconoscergli l’impegno, se c’è stato). Nel caso specifico del lavaggio dell’auto, il papà avrebbe dovuto spiegare al bimbo che la spugna dev’essere sempre perfettamente pulita e, nel caso in cui dovesse cadere a terra, è necessario sciacquarla ben bene insieme prima di ricominciare il lavoro.

Un ultimo accorgimento cui avevamo accennato quando abbiamo discusso delle regole: spieghiamo sempre al bambino con parole semplici ma in modo chiaro e preciso perché si è concesso il premio o il castigo (“Domenica andremo a Gardaland per festeggiare il tuo terzo dieci in matematica!” – “La mamma e il papà hanno deciso che non guarderai la TV per tre giorni perché hai detto alla nonna che è una stupida!”). Nel caso della punizione, al termine del periodo di “espiazione” sarà anche opportuno chiedere al bambino di ripetere a voce perché aveva subito la punizione e ricordargli con atteggiamento opportuno (cioè voce ed espressione serie) che siamo molto dispiaciuti per quello che è successo e ci auguriamo che non avvenga mai più.

Lo scarso coinvolgimento

11 Apr

Quanti di voi dissentono sul fatto che lo stimolo più naturale e spontaneo per iniziare un’attività è l’entusiasmo? Letteralmente questa parolina magica significa qualcosa come “possessione da parte di Dio”. L’entusiasmo è quella benzina, quell’idrogeno, quell’energia nucleare che ci aiuta a superare ogni timidezza, ogni dubbio, ogni esitazione e ci lancia ad ali spiegate nei compiti più difficili.

L'entusiasmo del genitore è essenziale per coinvolgere il bambino in qualsiasi attività.

L’entusiasmo del genitore è essenziale per coinvolgere il bambino in qualsiasi attività.

L’entusiasmo è un virus estremamente contagioso e benigno. Si trasmette molto facilmente per vicinanza emotiva e siccome ormai abbiamo imparato che i bambini sono madrelingua emotivi, capiremo subito che se con l’entusiasmo è facile motivare persino un adulto, figurarsi un bambino!

Tra parentesi, avete mai provato con un cane o un gatto? Benché non sia nemmeno paragonabile a quella umana, alcuni animali denotano una logica sorprendente; ma ancor più si osserva che essi sono facilmente influenzabili dalle emozioni; è noto a molti, per esempio, che il cane finisce per riprodurre fedelmente gli atteggiamenti del padrone: se questi è triste, pure se non ostenta emozioni negative, il cane ne risentirà immediatamente. Moltiplicate questa capacità empatica per 10 e passate all’unità di misura superiore: ecco a voi – TA-DAAA! – il bambino.

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Genitore motivatore

Uno dei ruoli essenziali del genitore è proprio quello di motivatore. Il genitore che non si dedica in modo attivo, consapevole e costante alla produzione di stimoli emotivi positivi nei confronti del bambino, finisce per generare in tutta la famiglia (le emozioni si trasmettono dai giocatori all’intera squadra) noia patologica, rapporti difficili, apatia, sconforto, senso d’impotenza; ovviamente queste emozioni negative protratte nel tempo formeranno un adulto con scarse doti di socialità e, una volta ancora, infelice, incompleto, insoddisfatto di sé. Il solito prodotto dell’assenza di ruolo, insomma. Avete avuto genitori poco motivanti? Vi ritrovate anche solo parzialmente in questa sgradevole situazione? Occhio coi vostri bimbi…

Non sorprendetevi, quindi, se vostro figlio non fa i compiti volentieri quando glielo chiedete in modo impositivo o insistente: quasi mai il bambino capisce perché deve lasciare il gioco per una cosa che l’annoia. Lo stesso discorso vale per lavarsi, vestirsi, gettare la spazzatura e, insomma, per ogni attività che distoglie il bambino dall’impero generosamente concessogli da Madre Natura: il gioco.

Si noti che già quest’ultima parolina nasconde un piccolo segreto: se ci sforziamo di trasformare in gioco ogni attività richiesta al bimbo, questi si motiverà da sé e rimarremo presto sorpresi di come ciò che una volta era un generatore di sbuffi, si trasformi in un’attività in cui il piccolo dà il meglio di sé. Ho già spiegato in altro post che, per apparecchiare la tavola, si può giocare a riconoscere le stoviglie facendo ripetere al bambino il loro nome e prevedendo un piccolo premio se, alla fine, tutto sarà piazzato nell’ordine stabilito.

Tornando all’entusiasmo, ogni attività richiesta dovrà essere sempre condita da notevoli dosi di motivazione, intendendo con ciò che la nostra voce, la nostra gestualità (body language), la nostra espressione dovranno sempre mostrare voglia di fare. Il “Carlo, fa’ i compiti!” o il “Per favore aiutami a sparecchiare!” andranno pertanto sostituiti da un gran sorriso, tanta voglia di fare e un brillantissimo: “Forza, forza ché facciamo insieme un po’ di matematica!” (se il bimbo ha problemi [1] con la materia) o “Forza, forza ché se studi un po’ di matematica diventi bravissimo e poi sei libero di fare [quello che gli piace di più]!” (se sa gestirsi da solo o ignoriamo la materia) o ancora “Dai dai ché sparecchiamo insieme così mettiamo via tutto in pochissimo tempo e poi possiamo [fare qualche gioco divertente]!” Credetemi, funziona e anche a breve termine.

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I compiti di scuola

A proposito di compiti e scuola; poiché motivare un bambino a studiare o fare i compiti è di solito il problema numero uno di ogni buon genitore, suggerisco a chi ha figli in età prescolare qualche accorgimento da adottare fin da subito:

  1. MAI parlare della scuola in termini negativi! Le frasi come: “Quando andrai a scuola ti metteranno in riga!” fanno sì che nella testa del bambino di 4-5 anni si formi naturalmente il pregiudizio che la scuola è una riedizione di Mauthausen in chiave moderna.

  2. Della scuola e delle maestre si deve sempre e solo parlare in termini positivi, anche se non dovessero piacerci per qualsivoglia motivo (semmai poi le si prendono in separata sede e si sottopongono loro i nostri dubbi). È molto importante creare aspettative entusiasmanti, anticipare al bimbo della materna che [accendete il generatore di entusiasmo!] “L’anno prossimo sarai già un bambino grande e andrai a scuola, che è un posto bellissimo dove si conoscono tanti nuovi amici e s’imparano tante cose interessantissime…” – condendo il tutto con esempi specifici su argomenti che il bambino adora – “…come gli animali preistorici!”

  3. Rispondere sempre ai perché del bambino anche se siamo stanchi o ci paiono domande insistenti, inutili e banali: voi lo sapete da sempre, ma per lui è tutta una scoperta. È essenziale sollecitargli ragionamenti logici (utilizzando domande aperte: che cosa…? quali…? come…?), inducendogli nuove domande cui continueremo incessantemente a rispondere; il tutto va condito con tanto entusiasmo e se dovessimo ignorare una risposta: “Questo la mamma non lo sa; andiamo insieme a prendere un libro (o su internet) e cerchiamolo!” La ricetta appena esposta integra il punto 2) precedente perché una volta soddisfatte le curiosità del piccolo potremo aggiungere in modo bonariamente subdolo ma sicuramente efficace: “Ecco, a scuola s’imparano tutte queste cose interessanti e potrai trovar risposta a ogni tuo perché.” Quando sarete stufi di rispondere o semplicemente avrete altro da fare, diteglielo serenamente (“Ora il papà deve andare a vestirsi…”) e suggerite un’alternativa (…perché non vai un po’ in camera tua a [fare un bel disegno, giocare con quello che gli piace, leggere un argomento che gli interessa]?” Ma con entusiasmo!!!

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[1] Attenzione a non sostituirsi al bambino nei compiti; a tal proposito dedicherò un articolo nella categoria del disconoscimento. Il genitore può certamente affiancare il figlio in una materia in cui questi non riesce particolarmente bene, ma deve limitarsi a motivarlo a ragionare da sé o a concedergli piccoli suggerimenti teorici; se sbaglia e non ci si sente sufficientemente sicuri delle proprie doti di supplente, è d’obbligo lasciare che sia la maestra a correggerlo: ognuno ha il proprio ruolo.

Le intrusioni nei litigi fra bimbi

9 Apr

Quante volte da bambini ci è capitato di litigare coi nostri fratelli, cuginetti o amici fino al punto, a volte, di metterci le mani addosso? Ci sono piaciuti gli interventi dei nostri genitori? In genere sì se eravamo la parte soccombente, no nel caso opposto e spesso no in ogni caso, al punto che paradossalmente finivamo per allearci contro i genitori stessi (emblematico il caso dei gemelli che difendono l’un l’altro a spada tratta)…

Tenetevi forte perché sto per rivelarvi qualcosa che molti di voi, d’istinto, non condivideranno subito: l’intrusione nei piccoli litigi quotidiani dei bambini non è utile; anzi è proprio dannosa. I piccoli usano il litigio come forma di confronto sociale e ciò è del tutto educativo e lecito: litigando, essi imparano a misurarsi, a misurare l’«avversario», a capire le proprie debolezze, ad argomentare le proprie ragioni in attacco e in difesa… Insomma, se il litigio non diventa pericoloso (cioè se i bambini non passano alle vie di fatto) o chiaramente insolente e isterico (cioè s’insultano in modo più simile ad adulti squilibrati che a bambini), meglio far finta di nulla.

I rischi di un intervento non necessario sono molteplici: la parte debole finirà per credere intimamente che non sarà mai in grado di gestire un conflitto da sé; quella forte (generalmente oggetto di reiterate punizioni unidirezionali) si riterrà la pecora nera che sbaglia sempre tutto; entrambi si considereranno incapaci di trovare un compromesso, perciò non si porranno mai il problema di quest’importante obiettivo… Intervenire nei litigi dei bambini quindi si configura come un errore di ruolo: la funzione, l’atteggiamento del genitore non sono infatti quelli dell’arbitro (imparziale, anzi spesso parzialissimo) sempre presente in campo: nella partita del bambino, che comprende il litigio, non c’è nulla né alcuno da ritenersi giusto o sbagliato, regolare o meno.

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Liti eccessive e punizione

Ciò detto, è altresì ovvio che, se i bambini dovessero litigare in modo potenzialmente pericoloso, è d’obbligo intervenire subito (con risolutezza ma mantenendo la calma!), separarli in stanze diverse e metterli tutti in punizione per qualche minuto perché capiscano che certi limiti non vanno travalicati (questo sì che è ruolo genitoriale). Attenzione: se anche uno dei due dovesse soccombere (per esempio, il primo tira un pugno sul labbro al secondo, facendolo sanguinare), si curerà il danneggiato con calma, spirito consolatorio ma senza sentimenti di solidarietà; quindi si punirà anche lui perché è utile che capisca che a portare le situazioni al punto di conflitto si è sempre almeno in due.

Dopo la punizione a seguito di un intervento per un litigio pesante, si devono riunire tutte le parti in causa (anche i bimbi eventualmente presenti e che non avessero partecipato all’alterco) e discutere con calma risoluta, ma senza recriminazioni né atteggiamenti di giudizio soggettivo, sugli sbocchi cui un simile confronto avrebbe potuto condurre. Non è quindi utile urlare: “Marco, avresti potuto rompere la testa a tua sorella!!!” bensì spiegare, rivolgendosi a tutti (non solo a Marco e sorella): “Quando ci si dà le botte, si rischia di fare molto male all’altro; per esempio, di rompergli un occhio e accecarlo per tutta la vita! La mamma e il papà non accetteranno mai questo comportamento e sono molto dispiaciuti per quello che è successo!” Così facendo, il bambino che ha agito capirà da solo che cos’avrebbe potuto causare; l’altro si guarderà bene dal portare di nuovo il conflitto all’esplosione; nessuno dei due, tuttavia, sentirà l’inutile pressione mortificante del dito puntato. Ricordiamoci bene: coi bambini non si celebrano processi e la casa non è un’aula di tribunale; se i piccoli cresceranno nell’equilibrio e nel rispetto di sé e dell’altro, da adulti non cercheranno facili difese o dubbie scorciatoie per ottener ragione.

Va da sé che il dialogo costante coi propri figli (non l’urlo o l’imposizione dall’alto) aiuta, nel medio-lungo termine, a risolvere qualsiasi situazione di conflitto perché se anche il bambino più debole dovesse spesso tacere mandando giù il boccone amaro, poi ne parlerebbe col genitore, che sarebbe visto come un riferimento affidabile e non un dispensatore di premi e condanne; mamma e papà potrebbero aiutarlo a capire che, per esempio, esistono cose più importanti nella vita che aver sempre ragione, specie davanti a un prepotente…

Infine si verificano purtroppo situazioni in cui uno dei figli attacca sistematicamente l’altro anche senza alcun tipo di provocazione; in genere ciò succede o in casi strettamente patologici (e quindi è opportuno rivolgersi a uno specialista) o se il genitore tende a rivolgere la propria attenzione (consciamente o meno) verso il figlio vittima degli attacchi; ricordo a tal proposito che, così come tutti noi siamo (o almeno dovremmo esserlo) uguali davanti alla legge, tutti i figli sono uguali davanti ai genitori e quindi bisogna dosare le attenzioni in modo paritetico, indipendentemente da sesso, età e carattere del bambino; in caso contrario, i figli cui è lesinata l’attenzione si sforzeranno di attirarla in qualunque modo, che spesso si rivelerà inadeguato. Di questa specifica situazione tratteremo comunque in futuro nella categoria del disconoscimento.

La supplica

4 Apr

Dopo aver affrontato un argomento corposo e complesso come il ruolo, ritengo che sia giunto il momento di passare a esempi pratici e significativi di comportamenti che comunque minano la credibilità del genitore.

Mi capita spesso di osservare mamme e papà che, disperati di fronte al diniego della piccola peste, si profondono in lamentose suppliche il cui stile non appare poi molto diverso da quello di certi furbi mendicanti che incontriamo quotidianamente sui nostri passi: “Faaate-la-carìììta-a-una-pooovera-madre-con-ciiinque-fiiili-piiicoli!” (e la Mercedes ultimo modello attaccata alla roulotte).

Esempio di modesta dimora costruita in Romania con le elemosine a beneficio dei ciiinque fiiili piiicoli.

Esempio di modesta dimora costruita in Romania con le elemosine a beneficio dei ciiinque fiiili piiicoli (foto personale).

Ecco, sappiate che, di fronte a scene cariche di tal pathos, la reazione del piccolo non sarà certamente diversa da quella che noi stessi con tutta probabilità esprimeremmo. Il bambino che, lo ricordo, è madrelingua emotivo, percepisce subito la debolezza dell’argomentazione e in particolare di chi la produce, e si regola di conseguenza (cioè non ci dà retta). C’è chi della supplica fa un sistema educativo: attenzione perché le conseguenze sul bambino (poi adulto) saranno sempre e inevitabilmente pari a quelle che scaturiscono dalla carenza di ruolo. Così, a seconda del carattere del piccolo, alcuni diverranno noiosi, patetici, evitabili; altri più determinati finiranno per far propria l’arte manipolatoria per usarla innanzi tutto proprio contro gli stessi genitori e quindi a danno della società.

Perciò sforziamoci di abolire dal nostro patrimonio di tecnica comunicativa i seguenti lamenti:

  • «Dai, Venanziuccio mio, fa’ i compiti per far piacere alla mammina dolce, pucci pucci kitty kitty…»

  • «Ma insomma, Clotildella cara, perché non mi aiuti a preparare la tavola, a me, che ti voglio tanto tanto tanto, ma tanto bene?»

  • «Giorgino, ti prego, quando sei con la nonna (paterna), versale la candeggina nella bottiglia del vino bianco; dai, fa’ il bravo, amore, ché la mamma non si sente molto bene e ha tanto, tanto bisogno del tuo aiuto per sopprimerla, eh?, cicci?»

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Bambino o Dio?

Il «ti prego» rivolto a un bambino, invece che a Dio, non farà sentire il minimo primo molto diverso dal Sommo Secondo e quindi invito caldamente a evitare simili atteggiamenti che col ruolo del genitore hanno ben poco di compatibile (è un eufemismo); e poi, vi avviso, rischiate di trovarvi in casa un estenuante mendicante in miniatura (oltretutto senza Mercedes né modesta dimora), di quelli che, alla prima occasione, “Maaaammaaaa, ti preeeeegooooo, daaaaaai, ti preeeeegoooo” eccetera…

«Mamma, ti pregooo!» La supplica è una tecnica abusata dai genitori e ovviamente i piccoli imparano...

«Mamma, ti pregooo!» La supplica è una tecnica abusata dai genitori e ovviamente i piccoli imparano…

Suggerirei di esprimere le richieste di svolgere un compito, in modo innanzi tutto coerente con l’esempio; cioè è inutile chiedere al bimbo di aver rispetto del gatto, se per primi si tende a centrifugarlo. Poi, sì a calma e dolcezza, ma senza fronzoli, versetti, «titti titti» eccetera, robe che persino il criceto penserebbe che lo consideriamo un idiota… Svolgere uno specifico compito, ad esempio aiutare ad apparecchiare, non è dal punto di vista formale un gioco e il bambino deve capirlo già dal tono della voce che esplicita la richiesta; dopodiché nulla vieterà (anzi è d’obbligo farlo!) di rendere il lavoro divertente e motivante, ad esempio giocando a ripetere i nomi delle stoviglie o proponendo un piccolo premio se il bimbo le posiziona nel modo corretto.

Ora vi confido un segreto su una tecnica comunicativa spesso efficace, non solo coi più piccoli: essa usa la forma interrogativa, la prima persona plurale e l’avverbio “insieme”: “Marco, che ne dici se apparecchiamo la tavola insieme?” E, dopo un accenno d’aiuto, lo si lascia continuare da sé complimentandosi con lui perché «Sai già fare bene tante cose da solo!» Provare per credere…

Genitore, non amico: il ruolo

2 Apr

Prima di affrontare un tema tanto astratto e di difficile formulazione come quello del ruolo, ho preferito illustrarne alcune deviazioni con due articoli esemplari perché pratici ed espressivi di una realtà piuttosto diffusa: il genitore che dà retta (o peggio, cede) al capriccio di un bambino o dimentica di stabilire e far rispettare alcune regole necessarie (i cosiddetti paletti), rinuncia più o meno consapevolmente al ruolo di genitore.

Ma che cos’è il ruolo e che ruolo è quello del genitore? Dei significati che il Dizionario Garzanti online ci fornisce del lemma ruolo, voglio sceglierne due che ritengo significativi: il 4° e il 6°.

     4) Funzione o atteggiamento assunto da un individuo all’interno di un gruppo sociale.

     6) Compito che in una squadra è attribuito al singolo giocatore.

Rielaborando queste definizioni nel contesto de «la Catena di #Elettra», deduciamo che il ruolo è una funzione, un atteggiamento che il genitore deve assumere nella famiglia, nonché un compito che il genitore ha nella squadra-famiglia. Sottolineo il concetto di squadra-famiglia perché la famiglia è innanzi tutto una squadra (sì, come quella di calcio!) in cui ognuno assume compiti (ruoli) ben precisi e tutti collaborano alla buona riuscita della partita-vita familiare. La famiglia non è e non dev’essere un insieme d’individui fra cui c’è chi comanda e chi esegue gli ordini, oppure in cui ognuno vive la propria vita in modo indipendente e avulso dal resto del nucleo. Nessuna squadra di calcio potrà mai vincere una partita con questo atteggiamento (ruolo), nessuna famiglia potrà mai ottenere risultati e vivere serenamente e con entusiasmo in questo modo. Serve perciò equilibrio fra individuo e gruppo.

La famiglia è una squadra in cui ognuno ha un ruolo e tutti hanno l'obiettivo di godere al meglio della vita di tutti i giorni.

La famiglia è una squadra in cui ognuno ha un ruolo e tutti hanno l’obiettivo di godere al meglio della vita di tutti i giorni.

Ora, il ruolo, la funzione primaria del genitore, è quello, istituzionale direi, dell’educatore, cioè il genitore deve educare il figlio, ovvero tirar fuori il suo meglio e renderlo autonomo, affiancarlo affinché diventi un adulto sereno ed equilibrato. Più avanti vedremo che anche i figli (o gli zii, i nonni) assumono ruoli ben precisi in famiglia (per esempio, devono aiutare nelle faccende della vita di tutti i giorni), ma mai dovranno assumere il ruolo dell’educatore, per esempio nei confronti dei fratelli più piccoli: gli educatori in famiglia sono e restano solo i genitori: NO quindi pure ai nonni che pretendono (o peggio cui è richiesto) di sostituirsi in questo compito al padre o alla madre del bambino. Di primo acchito si potrebbe perciò pensare al ruolo del genitore come a quello di una guida-chiave, ma in realtà un genitore è molto più di una semplice guida.

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Qualità del ruolo

La guida esercitata da un genitore dev’essere unica, autorevole e coerente, cioè il suo atteggiamento dev’essere insostituibile, credibile e di buon esempio. Un genitore che usa la coercizione come mezzo educativo mostra di essere debole, poco credibile, scarsamente autorevole, perché la violenza è il mezzo più semplice e spiccio per assicurarsi un risultato (che comunque in questo modo non si acquisirà mai): tutti sono capaci di farne uso, a cominciare da un bambino di due anni, e quindi il genitore coercitivo è e appare terribilmente immaturo oltreché “sostituibilissimo”… Inoltre egli non si mostra coerente perché dubito che un genitore desideri che il figlio impari a ottenere quel che vuole con le cattive maniere (quelle che invece proprio il genitore, incoerentemente, sta usando). Ben più credibile (autorevole) sarà invece il genitore che per primo dà il buon esempio assumendo di fronte a un compito o a una regola (per esempio, apparecchiare la tavola, non guardare troppa TV) lo stesso atteggiamento che si pretende dal figlio.

Infine, il genitore deve aver rispetto dei “compagni di squadra”, delle loro esigenze, dei ruoli che essi assumono nella famiglia, delle loro inclinazioni. Naturalmente si potrebbe pensare che il genitore possa esigere le stesse attenzioni dai compagni di squadra. In realtà egli avrà ben poco da pretendere se abdicherà al suo ruolo di genitore perché, non essendo credibile, gli altri membri avranno gioco facile nel screditarlo ulteriormente o semplicemente nel non dargli retta. Il genitore quindi non potrà mai pretendere rispetto dai figli, bensì dovrà meritarselo. Il “Tu sei mio figlio e quindi mi rispetti!” fa tanto scalpore e maschio del 1950, ma, nella realtà porta il figlio a porsi inconsciamente la piuttosto logica domanda: “E perché dovrei?” A seconda del carattere, le conseguenze saranno la ribellione o una timorosa sottomissione che condurrà a nevrosi per l’incompatibilità fra ciò che il bimbo crede in cuor suo (“Mio padre sbaglia!”) e ciò che egli è obbligato a mostrare al genitore (“Papà, hai ragione!”).

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Genitore-amico?

Spero che a questo punto del ragionamento sia chiaro perché un genitore non possa essere, come certi luoghi comuni falsamente esprimono, un amico, un fratello o una figura diversa dal genitore stesso. Un amico è soltanto una persona con cui abbiamo una disinteressata affinità di sentimenti; non necessariamente un amico ci dà il buon esempio e c’interesserà davvero poco se sarà credibile o meno; spesso, poi, non sarà nemmeno l’unico: gli vogliamo bene, ci andiamo d’accordo, ci passiamo del gran bel tempo insieme, spesso ci gratifica più di un genitore… ma non è un genitore! La posizione del fratello, poi, è ancor meno credibile di quella dell’amico: un genitore che assume il ruolo di un altro familiare è un usurpatore di ruoli che non ha rispetto per la squadra (s’immagini un difensore che pretende di fare l’attaccante) e come tale sarà prima o poi visto dal figlio.

Ciò non toglie che, in situazioni specifiche e puntuali, il genitore non possa anche comportarsi da amico o da fratello (in certe partite può mancare un giocatore e bisogna temporaneamente rimpiazzarlo), ma questo è ben diverso dal porre limiti spesso disastrosi a un ruolo tanto specifico, unico ed essenziale nella società.

Mi si permetta quindi di riassumere, rimarcandole, le conseguenze di un genitore senza ruolo sul bambino: questi crescerà senza guida, non capirà che esistono limiti (ufficializzati dal ruolo) in cui può muoversi liberamente, e, nel tempo, diverrà l’adulto insicuro, confuso e irrispettoso degli altri che abbiamo già conosciuto negli articoli sul capriccio e sulle regole. Provate a pensare a voi stessi e riflettete sul ruolo che i vostri genitori (o i vostri zii, nonni) hanno assunto per voi: vi aiuterà a schiarirvi le idee su questo concetto ostico da esprimere e mettere in pratica.

In chiusura, proprio per facilitarvi il compito, vi illustro un esempio dalla vita di tutti i giorni: se decidiamo d’infliggere una piccola punizione al bimbo inadempiente, non dovremo certamente mostrarci flessibili o assumere un atteggiamento incoerente con l’azione; importanti ai fini della manifestazione del ruolo sono, in questa specifica situazione, l’espressione seria (mai sorridere o addirittura ridere!) e il linguaggio fermo e risoluto (ma calmo!). La fratellanza o l’amicizia lasciamoli pure ai momenti di svago.

Poche regole ma confuse

28 Mar

Stavate riflettendo su alcuni vostri punti deboli e vi siete soffermati su una certa insicurezza che caratterizza il vostro modo di agire? Oppure ritenete di avere scarsa fantasia nel risolvere i problemi anche semplici che tutti i giorni costellano la vostra vita? Forse i vostri genitori non conoscevano l’uso adeguato delle regole

Le regole non sono un’invenzione delle educatrici nazistoidi di una volta, imposte giusto per assumere il controllo totale del pargolo. Esse costituiscono uno strumento essenziale al bambino per poter crescere in modo equilibrato; anche se non lo ammetterà mai, egli ha bisogno di sentirsi dire che cosa può fare e che cosa non può fare; ha bisogno di crearsi una mappa mentale virtuale degli “spazi” in cui può muoversi in assoluta libertà. Bambini cresciuti con una quantità o qualità di regole inadeguate, possono diventare rapidamente insicuri e infelici (anche da adulti) perché il messaggio che trasmettiamo al bimbo è, a seconda della configurazione di regole, “Arrangiati!” oppure “Non mi fido della tua capacità critica!” Quindi le regole sono uno degli strumenti essenziali con cui il genitore ha l’occasione di manifestare il proprio ruolo e accrescere la propria autorevolezza; fallire sulle regole significa mettere in discussione col bambino il proprio ruolo di genitore; vuol dire screditarci ai suoi occhi.

Non vorrei apparire troppo schematico, perciò annuncio subito che non sono favorevole a determinare una vita familiare basata sul Manuale delle Giovani Marmotte o, meno prosaicamente, su una Bibbia delle Regole o un Talmud che descriva nel dettaglio la soluzione pratica a ogni situazione possibile. Mi limito perciò a ripetere quel che scaturisce dal buon senso della nonna, che poi è una persona che ha commesso tanti errori nella sua lunga vita e qualcosa, da quegli errori, ha imparato: per un minimo di convivenza civile, in famiglia e in società, servono poche regole importanti, concordate, chiare, positive e fatte sempre rispettare.

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Regole di qualità

Le regole devono essere importanti. Sarebbe inutile, anzi dannoso (perché limita la creatività del bambino) cercar di stabilire un processo per ogni attività familiare; è utile limitarsi a quelle situazioni che, per esempio, mettono in pericolo l’incolumità del bambino (“Si cammina sempre sul marciapiede!”), gli impediscono una comunicazione efficace (“Si parla solo quando la mamma ha finito di parlare!”), limitano la sua maturazione psichica (“La TV si guarda al massimo per un’ora al giorno!”). Ognuno col proprio partner deve decidere quali sono i punti essenziali su cui deve basarsi la civile convivenza in famiglia, e codificare quei punti in regole. Va da sé che, essendo i punti essenziali, le regole dovranno essere poche.

Le regole devono essere concordate. Innanzi tutto fra i partner, che devono condividerle e promuoverle: entrambi devono essere intimamente convinti della bontà delle regole e consapevoli dell’obiettivo che, con esse, vogliono conseguire. Se uno dei due non è d’accordo, meglio lasciar perdere. Poi è utile anche concordarle col bambino, se questi è sufficientemente grande per capirle (3-4 anni); resta però fermo il fatto che se i genitori decidono che una regola è necessaria (per esempio, per la sua incolumità), il bambino dovrà comunque rispettarla, anche se con essa non concorda. Concordare le regole col bambino è utile perché questi accetterà più volentieri un accordo, che un’imposizione dall’alto; del resto ciò vale anche nelle intese fra adulti: faccio il project manager, potete fidarvi! 😉

Le regole devono essere chiare. Nessun bambino accetterà un’imposizione che non capisce. Inutile trattare la bimba di 4 anni come Fosca: “Quando ti lavi le mani, chiudi il rubinetto rimettendolo in posizione tale che il prossimo utente goda di una temperatura adeguata; poi asciugati bene le unghie e le mani, anche fra le dita; quindi, con lo stesso asciugamano, pulisci una a una le gocce d’acqua sul rubinetto e nel lavabo perché l’acqua di Milano è piuttosto calcarea e, con l’inflazione galoppante, il Viakal ha assunto un costo proibitivo!” Forse è più efficace un: “Prima di mangiare, bisogna sempre lavarsi le mani…” Se poi il bambino è sufficientemente grande (6-7 anni) si deve anche spiegare il perché della regola: “…perché l’igiene aiuta a non ammalarsi.” Insomma, siamo brevi, basiamoci su situazioni che il bambino possa comprendere al volo (“Prima di mangiare”, non “Quando ritieni di aver le mani troppo sporche per venire a tavola”) e usiamo parole semplici.

Le regole devono essere positive. Evitiamo l’uso del “non” e dei divieti: questi sono sempre percepiti come un sopruso o semplicemente non entrano nella testa (il “non” è facilmente ignorato dal cervello). Se vogliamo dirgli quindi: “Non uscire dal parco giochi!”, giriamola in: “Si resta sempre dentro il parco giochi!” “Non accettare caramelle dagli sconosciuti!” diventa così “Si mangiano solo le caramelle che ti dà la mamma!” (dando una bella enfasi su quel “solo”. L’uso della forma impersonale (“Si fa!”, non “Fai!”) fa sì che, almeno coi bambini più grandi, la regola sia percepita come universale; cioè non la deve rispettare solo il bambino, bensì vale per tutti e quindi… mal comune, mezzo gaudio! Altro suggerimento utile: usate sempre un avverbio con valenza assoluta, su cui porrete l’enfasi (osservate quelle paroline in corsivo nelle regole d’esempio che ho citato); ciò aiuta il bambino a capire che non si tratta di un semplice consiglio, bensì di una regola che non ammette eccezioni.

Le regole devono essere fatte rispettare. Non ha alcuno scopo imporre (anzi, concordare!) una regola, se poi non la si fa rispettare senza eccezioni. Anzi, poiché la natura ha programmato il cervello del bambino affinché colga immediatamente il nesso causa-effetto, se si transige sul rispetto della regola, questa sarà addirittura percepita come qualcosa di esplicitamente concesso… Quindi se non si ritiene di riuscire a far rispettare una regola sempre e comunque, è meglio non imporla del tutto.

Far rispettare le regole è meno difficile di quel che si pensi, ma, chissà perché, non ci si pensa mai: è sufficiente che quando il bambino si comporta secondo quanto stabilito, glielo si faccia notare e ci si mostri entusiasti e soddisfatti di “quell’ometto così bravo!” Anzi, diffondiamo una regola universale che permeerà «la Catena di #Elettra» fino all’ultimo articolo: i premi funzionano molto meglio delle punizioni; hanno solo il piccolo problema di essere azioni con effetto a medio-lungo termine (cioè, genitori, abbiate pazienza: i risultati arriveranno di sicuro!), mentre le punizioni hanno effetto a breve-brevissimo termine e, se ce l’hanno a medio-lungo, è sempre negativo, spesso traumatico. PS: Questa regola vale persino nell’educazione degli animali!

Ovviamente, se il bimbo non è stato abituato fin da piccolo a seguire regole, all’inizio ci troveremo di fronte a capricci e alla necessità d’imporre piccole punizioni. Importante è non intervenire mai con rabbia o manifesta preoccupazione (nemmeno se ha attraversato la strada senza consenso), bensì mostrarsi amorevolmente severi e dispiaciuti per “Quella regola che hai infranto…” Coi bimbi più grandi è anche essenziale spiegare che conseguenze sarebbero potute scaturire dall’infrazione: “Sulle strade passano le macchine e hai rischiato di essere travolto!

L’attenzione al capriccio

26 Mar

Entriamo nel merito de «la Catena di Elettra» trattando i più tipici errori di ruolo, dove per ruolo intendo quello di genitore e educatore. Descriverò pertanto in modo abbastanza schematico alcuni comportamenti inadeguati da parte del genitore in quanto genitore.

Francesco aveva imparato presto a ottenere ciò che voleva: già a 3-4 anni si lanciava in pianti isterici a ogni rifiuto da parte del padre, il quale rispondeva al capriccio chiedendo a suo figlio “perché” facesse quelle scene, ricordandogli (a 3 anni!) che in fondo lui stava dando al bimbo tutto ciò di cui aveva bisogno e bla-bla-bla elucubrazioni varie. Insomma, il capriccio del bambino diventava occasione di discussioni, contrattazione e gag tragicomiche in cui l’adulto usciva sistematicamente sconfitto.

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Perché fa i capricci?

Il «Sinnataggen» (Gustav Vigeland) presso il Vigelandsparken a Oslo.

Il «Sinnataggen» (Gustav Vigeland) presso il Vigelandsparken a Oslo.

Per capire come reagire in tale situazione, bisogna innanzi tutto sapere perché il bimbo fa i capricci. I bambini alla nascita si regolano esclusivamente in base alle emozioni che provano: fame, sete, sonno, paura eccetera. Man mano che la maturazione psichica progredisce, le emozioni lasciano sempre più spazio alla logica e al ragionamento; insomma il bambino “ideale” nasce come essere emotivo e pian piano diventa un individuo in cui emozioni e razionalità trovano il giusto equilibrio.

Va da sé che un bambino di 3-4 anni comunica ancora principalmente per emozioni. Quando percepisce un disagio, egli risponde più spontaneamente con pianti e strepiti che con un piuttosto innovativo: “Egregia Signora Mamma, desidererei continuare a giocare invece di prepararmi per uscire, ma Lei non me lo sta permettendo e perciò Le significo tutto il mio disappunto.”

Il capriccio è una richiesta d'attenzione inadeguata. Va ignorato.

Il capriccio è una richiesta d’attenzione inadeguata: va ignorato.

Siccome i bambini, come le cornacchie e i topolini, capiscono in fretta che a una specifica causa corrisponde uno specifico effetto, se il genitore darà retta a quella manifestazione inadeguata di richiesta d’attenzione, la prossima volta che si presenterà l’occasione di continuare a giocare invece di uscire, il bambino si profonderà in estrose improvvisazioni vocali in no minore, comunemente dette capricci. Quindi la soluzione è effettivamente quella che sentiamo ripetere spesso dagli educatori: il capriccio va ignorato [1]. Bisogna proprio fare come se il bambino non esistesse: lui cerca la nostra attenzione in un modo scorretto e noi, firulì firulà, continuiamo a fare le nostre cose come se nulla stesse accadendo, come se lui fosse invisibile. Quando poi il bimbo si sarà calmato, torneremo a concedergli tutta l’attenzione necessaria e dovuta. Occhio ché questa regola vale con tutti, dai zero ai centodieci anni: «Capriccio? NON ascolto. Comunicazione positiva? Sì, ascolto.»

Si ricordi il genitore ipersensibile cui dovesse “piangere il cuore” al vedere il bambino in quelle condizioni, che rispondere in qualsiasi modo a un capriccio significa far sì che, la prossima volta, il bimbo usi lo stesso metodo, oltretutto rinforzato («se funziona, diamoci dentro!»); la relazione genitore-figlio si farà così sempre più instabile e inquieta perché il genitore si sentirà sempre più debole e impotente di fronte alla piccola peste, la quale, siccome è ben più esperta di comunicazione emotiva rispetto a un adulto, se ne accorgerà e ne approfitterà ulteriormente. Oltretutto, è utile ricordare che un bambino abituato a ottenere ciò che vuole col capriccio, diventerà rapidamente una creatura infelice e poi un adulto che vorrà ottenere ciò che desidera con il lamento, l’imposizione, la violenza. Gran bel risultato, eh?

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Gestire le emozioni

È essenziale che il bambino impari a gestire e superare da sé le emozioni negative: mai intervenire durante o dopo un capriccio.

È essenziale che il bambino impari a gestire e superare da sé le emozioni negative: mai intervenire durante o dopo un capriccio.

Esiste un secondo intento, ancor più educativo, nell’ignorare il capriccio: lasciato alle sue emozioni, il bambino impara a gestirle; inizialmente egli si abbandona alla disperazione, ma alla fine pianti e strilli costituiscono una valvola di sfogo essenziale (ricordiamoci come ci sentivamo più distesi dopo aver pianto) ed è importantissimo che egli li conosca fin dalla più piccola infanzia e li sperimenti varie volte. Se impediamo al bambino di gestire da sé queste emozioni, negative ma innocue perché del tutto istintive e naturali, egli non sarà mai in grado di affrontare la sconfitta, la frustrazione; una volta divenuto adulto, queste condizioni genereranno pertanto in lui una rabbia irrefrenabile oppure la convinzione che “capitano tutte a me”, “sono sfortunato”. Mi raccomando, quindi, cari genitori: lasciate che il vostro bimbo attraversi tutto il capriccio senza intervenire!

Ciò detto è bene però precisare che non tutti i pianti e le urla così comuni nei bimbi più piccoli sono capricci; è essenziale che il genitore sappia distinguere un disagio vero (es. un dolore fisico, un sintomo) cui dovrà rispondere con gesti e parole di rassicurazione, da un disagio pur sempre vero, ma cui non si può né si deve porre rimedio. E’ poi evidente che capricci insistenti e ripetuti, anche senza malessere fisico, possono celare un disagio psichico che necessita di una risposta adeguata e professionale: il pediatra ha tutti gli strumenti per capire di cosa si tratta ed è in grado di consigliare la soluzione più adeguata.

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[1] A tal proposito si legga, per esempio, qui, qui e qui.